Hai figli? Ne vuoi? Sposata? È ora di finirla con le domande illegali alle donne durante i colloqui. - THE VISION

Quando si cominciano a fare i colloqui di lavoro, il web diventa un enorme serbatoio di consigli su come superarli. Ovunque è possibile trovare liste e decaloghi delle cose giuste da fare e da non fare, da dire e da non dire; cosa è meglio indossare, come parlare, come muoversi. Quasi nessuno però ti dice che se sei donna, ci sono molte probabilità – anzi c’è quasi la certezza – che ti verranno fatte domande alle quali non saprai cosa rispondere; non soltanto perché quasi nessuno dei vademecum in circolazione ne parla, ma anche perché non hanno assolutamente nulla a che fare con la tua formazione, con il tuo percorso di studi o con la tua predisposizione al posto per il quale ti stai candidando.

“Signora o signorina?”, “Sei sposata o convivi?”, “Come pensi di bilanciare il lavoro e la famiglia?”, “Vuoi figli?”, “Avresti problemi a stare lontana da casa?”. Tutte domande che nessun selezionatore farebbe mai a un uomo, ma che diventano spesso una prassi quando dall’altra parte del tavolo c’è una donna in età fertile. D’altronde, nessuno chiederebbe mai a un uomo come pensa di bilanciare la vita tra famiglia e lavoro perché, purtroppo, si presuppone sempre che, se così fosse, ci sarebbe sicuramente una donna a badare alla casa e anche ai suoi figli. 

Quando i selezionatori si trovano davanti una donna, nella maggior parte dei casi, infatti, mettono in pratica un’equazione tanto infima quanto banale in cui le due uniche variabili tenute in considerazione sono l’età e lo stato civile. Se una candidata è giovane, c’è la possibilità che prima o poi si sposerà e metterà al mondo uno o più figli; se invece è adulta potrebbe già avere dei figli e con questi tutte le vicissitudini che comportano. Allora seguono altre domande di rito come: “Quanti anni hanno i tuoi figli?” o “Chi li guarda mentre sei a lavoro?”, al solo scopo di sondare quanto siano legate a una famiglia e quanto tempo potrebbero quindi dedicare al lavoro.

Ad ogni modo, queste domande non sono solo scorrette e assolutamente non professionali: sono illegali. Chiedere a una donna se ha intenzione di diventare madre viola infatti le norme di legge contenute nel Codice delle pari opportunità, nello Statuto dei lavoratori e anche nella Costituzione. Proprio in applicazione dei principi di parità e di uguaglianza di opportunità tra uomini e donne, nell’articolo 37 della Costituzione viene stabilito che “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”. Un principio ulteriormente ribadito anche dal Codice delle Pari Opportunità, che all’articolo 27 del Decreto Legislativo 198/2006 afferma che è vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso al lavoro, in forma subordinata, autonoma o in qualsiasi altra forma, indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale. Il secondo comma dell’articolo spiega che la discriminazione è proibita anche se attuata attraverso il riferimento allo stato matrimoniale, di famiglia o di gravidanza. Dunque, oltre ad essere illegale discriminare per ragioni di genere l’accesso al lavoro, a meno che la mansione per la quale ci si sta candidando non preveda deroghe o sia essenziale alla natura della prestazione (come avviene in alcuni casi nel settore della moda, dell’arte o dello spettacolo) è altrettanto illegale informarsi ponendo domande che riguardano il proprio sesso o la vita privata. Se tutto questo non dovesse bastare, infine, il diritto a non ricevere domande personali non attinenti è garantito anche dall’articolo 8 dello Statuto lavoratori che sancisce il divieto al datore di lavoro, ai fini dell’assunzione (come nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro) di effettuare indagini su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale. Il datore di lavoro si può informare solo su cose che potrebbero servire a valutare l’idoneità del candidato rispetto a una specifica mansione; se si convive o se si ha desiderio di fare un figlio, ovviamente, non rientrano fra queste.

Anche la Carta Sociale Europea Riveduta stilata dal Comitato Europeo dei Diritti Sociali (CEDS), all’articolo 20 sancisce il diritto alla parità di opportunità e di eguale trattamento nell’accesso al lavoro, nelle condizioni di impiego e di lavoro, compresa la retribuzione e le promozioni. E questo in sostanza significa che, uomo o donna, non dovrebbe cambiare nulla. Ma non è così, e le donne sono le più discriminate non soltanto perché durante i colloqui ricevono domande che agli uomini non vengono fatte, ma anche perché, come se non bastasse, ne subiscono di molto più stressanti. Ciò emerge, ad esempio, da uno studio pubblicato sul Journal of Social Science, riportato poi dal Telegraph, in cui si parla di come le donne durante un colloquio vengano interrotte mediamente più spesso degli uomini perché chi le sta intervistando, ritiene di doverle mettere alla prova più di quanto farebbe con un uomo. Sempre dallo stesso studio emerge, che proprio a causa di queste circostanze – interruzioni, domande inappropriate, creazione di un ambiente stressante – le donne affretterebbero le loro risposte mantenendo un profilo più basso e sarebbero anche meno propense a parlare di sé, con tutto ciò che questo può comportare ai fini della buona riuscita di un colloquio di lavoro.

Per quanto in teoria le pari opportunità esistano, quindi, a parte le leggi e le buone intenzioni, nessuno le ha mai viste. Un’assenza che pesa come un macigno in un momento storico schizofrenico come questo, in cui mentre da un lato ci si lamenta costantemente del calo demografico spingendo le donne a fare figli, dall’altro si continua a pensare alla maternità come un intralcio della produttività. Tutti, infatti, ormai sventolano la bandiera degli incentivi all’occupazione femminile; tutti riconoscono l’importanza di fornire alle donne gli strumenti per raggiungere la parità professionale, molti capi di azienda illuminati sbandierano diritti, ma poi è sempre meglio se a fare figli siano le dipendenti degli altri. In parte questo atteggiamento si lega a doppio filo anche con gli stereotipi che circondano il ruolo sociale delle donne, che ancora oggi, nell’immaginario collettivo, o sono madri o donne in carriera. Una visione tutto sommato neanche tanto lontana dalla realtà se si considera quanto è complicato per una donna riuscire a perseguire con successo entrambe le strade, o per lo meno, farlo senza aiuti esterni (cosa che non tutte si possono permettere).

Dal 2011 al 2017 165.562 donne hanno lasciato il lavoro per le difficoltà di conciliare la vita privata e lavorativa. E negli anni questi numeri continuano ad aumentare. Come evidenziavano gli indicatori già l’anno scorso, la ragione principale di questo abbandono riguarda il peso del lavoro di cura dei figli e delle persone anziane che grava sulle spalle delle donne in maniera assolutamente sproporzionata fra i generi. Si rileva, infatti, che il 65% delle donne fra i 25 e i 49 anni, con figli piccoli non sia disponibile a lavorare per motivi legati alla maternità e al lavoro di cura. Scelte che non pesano sugli uomini perché, mentre nel mondo del lavoro è il protagonismo femminile a mancare, nella sfera privata e all’interno delle famiglie è il protagonismo maschile quello che dovrebbe essere incentivato di più

Così, per poter essere accettate nel mondo del lavoro molte donne spesso sono costrette a scendere a compromessi, e questi, tanto possono riguardare l’accettare che gli vengano poste domande illegali e inappropriate, tanto possono riguardare ben altre forme di discriminazione. Non è affatto inusuale sentirsi chiedere di rinunciare alla maternità per qualche anno, o in altri casi non c’è da stupirsi se, una volta assunte, magari con un contratto di natura occasionale, il datore di lavoro faccia firmare alle dipendenti al momento dell’assunzione, una lettera di licenziamento in bianco. Consuetudini che se di norma si accettano nell’incertezza, nella perplessità o semplicemente nell’abitudine, nel momento che viviamo, in cui la necessità di lavorare ci spinge ad accettare qualsiasi compromesso non dovrebbero mai farci perdere di vista che il lavoro è un diritto, oltre che uno scambio di prestazioni.

Se vogliamo preservarlo, piuttosto che accettare queste umiliazioni come un passaggio ineluttabile è fondamentale diffonderne la consapevolezza e cominciare a denunciare. Opporsi durante un colloquio è difficile, così come provare di aver subito un trattamento discriminatorio. Un’altra cosa da fare sarebbe rivolgersi ad esperti in diritto del lavoro, per valutare insieme i possibili rimedi, è possibile anche farlo gratuitamente, in particolare per quanto riguarda le problematiche legate alla discriminazione delle donne, rivolgendosi alle Consigliere di parità del proprio territorio, come prevede il D.lgs. 198/06, oppure ai tanti sportelli delle associazioni che si occupano di donne e diritti negati sparsi sul territorio italiano come Differenza Donna, l’Unionefemminile, Ihaveavoice o il Centrodonnalisa.

Quello che fa più rabbia è che pur essendo temi all’apparenza ormai condivisi da tutti, nei fatti le cose rimangono sempre uguali. Le donne continuano a non vedere i loro diritti riconosciuti. Riconoscere, rendere noti e denunciare gli abusi, grandi o piccoli che siano, è la chiave per spostare l’attenzione della politica e l’opinione pubblica dalla forma ai contenuti, dal pinkwashing aziendale ai diritti.

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