Se per lo scrittore Aldo Busi “la storia dell’umanità è la storia dei suoi traumi”, negli ultimi due anni e mezzo abbiamo aggiunto diversi capitoli al sussidiario collettivo della paura. Tra pandemia, crisi economica ed energetica, la guerra in Ucraina e il timore che quest’ultima possa sfociare in un Armageddon, è come se stessimo tutti vivendo un disturbo da stress post-traumatico senza che i traumi siano finiti.
Il disorientamento comune è stato amplificato da una fiducia tradita. Le persone tendono a non riconoscersi più nelle autorità perché le loro rassicurazioni non sono andate a buon fine. “Andrà tutto bene” o “Ne usciremo migliori” sono stati i ritornelli che continuavamo e che continuavano a ripeterci, e su cui una parte di noi faceva affidamento, cercando di creare un collante per uscire da un evento traumatico – in quel caso la pandemia, il primo evento traumatico di tale portata per certe generazioni – attraverso l’unione, la comunità virtuale come base su cui appoggiarsi per ripartire. Dopo i primi mesi di emergenza, però, quando le misure di contenimento sono state prolungate, il disagio individuale si è trasformato in uno scontro di massa. Come nel romanzo Cecità del premio Nobel José Saramago, di fronte agli eventi distruttivi l’essere umano è infatti tornato a una divisione tra fazioni-tribù e a uno stato di esasperazione che porta inevitabilmente a uno scontro.
Confusi, smarriti, arrabbiati siamo arrivati a dubitare e a criticare l’antidoto contro la malattia – come con il fenomeno dei No-Vax – e a non distinguere l’aggredito dall’aggressore – come nel caso dell’invasione russa dell’Ucraina. Non fidandosi più di nessuno, men che meno delle istituzioni che gli hanno voltato spesso le spalle, l’essere umano ha iniziato a trovare altri appigli per andare avanti, a volte nobili, a volte meno, come ad esempio i complotti, in una sorta di crisi paranoide collettiva. Alcune persone, per difendersi, non hanno nemmeno voluto credere ai loro stessi occhi, per cui la strage di Bucha era in realtà una fiction creata da attori e il vaccino uno strumento per impiantarci i mircochip. Passare da un trauma all’altro senza soluzione di continuità ha infatti contaminato il tessuto sociale a tal punto da elevare a sindrome di massa un malessere individuale, a rabbia generalizzata la frustrazione del singolo. Una rabbia ormai cieca, indirizzata a un bersaglio che cambia di continuo, di cui è impossibile riconoscere il volto, perché non si palesa mai per quello che è, e quindi assume i tratti di una generica e fortissima paura dell’ignoto e del futuro.
Il disturbo da stress post-traumatico (PTSD) è in realtà una problematica successiva a un avvenimento, mentre noi la stiamo riscontrando durante il trauma stesso, che sembra non avere fine, perché è un insieme di micro-catastrofi. Questo disturbo fu inizialmente associato ai soldati che tornavano dalla guerra del Vietnam e che presentavano sintomi come attacchi di panico, depressione e flashback dei momenti di terrore vissuti – ma ovviamente esisteva anche prima. Fu così inserito nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali nel 1980, in seguito alle proteste dei veterani statunitensi, che pretendevano dalle assicurazioni sanitarie il risarcimento per le terapie psichiatriche. La Società Italiana di Psichiatria (SIP) ha spiegato come la pandemia abbia causato lo stesso disturbo a una parte di popolazione man mano sempre più estesa. Dapprima, durante le prime ondate, le più pesanti e improvvise, il PTSD è stato riscontrato prevalentemente negli operatori sanitari – fino al 37% nel campione di lavoratori analizzati – e nei sopravvissuti al virus dopo un ricovero – addirittura nel 96% dei casi. Allucinazioni, ansia e depressione erano i sintomi più comuni. Con il proseguire della pandemia la platea però si è allargata, mettendo a rischio, sempre secondo la SIP, un italiano su tre.
Come conseguenza principale si è riscontrato un aumento della vendita e del consumo di psicofarmaci. Secondo l’Ordine degli Psicologi, soltanto in Italia si è arrivati a consumare in media 50 dosi al giorno di benzodiazepine per mille abitanti e 40 al giorno di antidepressivi. Una ricerca pubblicata su Lancet conferma questo trend, spiegando che i fenomeni legati all’ansia e alla depressione sono aumentati rispettivamente del 28% e del 26% rispetto al periodo pre-pandemico. A farne le spese sono stati soprattutto i più giovani, come dimostra uno studio di Jama Pediatrics condotto su 80mila adolescenti e che rivela come un giovane su quattro abbia avuto sintomi clinici di depressione in seguito alla pandemia. Nonostante i sintomi da Covid-19 ora siano mediamente molto meno gravi rispetto a quelli del 2020, non siamo però ancora definitivamente usciti dall’incubo. Il fattore di stress è infatti aumentato con l’insorgenza di nuove problematiche, la guerra, l’acuirsi degli effetti della crisi climatica e la crisi enegetico-economica.
Sia chiaro, prima del 2020, e anche del 2022, il nostro pianeta non era l’Eden, eppure gli ultimi due anni e mezzo hanno fatto aumentare la nostra percezione della caducità, per il semplice fatto che adesso quelle che prima potevano essere paure astratte si sono fatte tangibili. Prima, infatti, eravamo portati a ritenere lontani i pericoli per il nostro ambiente, poiché non ci riguardavano ancora così direttamente, e tendevamo a procrastinare il momento di una presa di posizione e di un cambio delle nostre abitudini; così come facevamo per le guerre che si combattevano in luoghi percepiti come distanti e indipendenti da noi. La crisi climatica e in generale i problemi legati all’ambiente non venivano affrontati dalla popolazione con l’urgenza con cui invece abbiamo dovuto fare i conti ultimamente. L’essere umano è per sua natura un San Tommaso che deve tastare con mano il male e se non vede non crede. Finché non viene toccato il nostro orticello tutto va bene, anche l’indiretta distruzione progressiva del pianeta a causa nostra. Certi discorsi, però, fino a pochi mesi fa erano considerati tediosi astrattismi – soprattutto per le generazioni più in là con gli anni, mentre i giovani peroravano maggiormente la causa – e lo stesso valeva per le guerre. Le battaglie dei curdi, per esempio, erano quasi un fenomeno di letteratura remota: leggevamo notizie, ci documentavamo, ma “non ci riguardava”; l’Afghanistan ha fatto un po’ più d’eco, ma anche quella si è esaurita in fretta. È un po’ il fenomeno che tuttora coinvolge alcune persone e le porta a dire: “Perché il destino dell’Ucraina deve mettere a repentaglio l’incolumità del mondo intero?”. Questo pensiero – in una popolazione che non ha ancora cauterizzato le precedenti ferite – nasce spesso da una sorta di rifiuto della realtà, tra minacce nucleari e rinculi economici della guerra che toccano anche noi.
Il senso di incertezza è infatti legato al concatenarsi degli eventi che affliggono una società già di per sé esausta. È un po’ come l’avvento dell’influenza spagnola alla fine della prima guerra mondiale. La paura, in questi anni, è stata alimentata anche dai media, che spesso hanno speculato sul dolore per un click in più o per un maggior share televisivo. Non che i temi trattati non fossero reali, ma c’è chi ne ha approfittato per creare una strategia nel terrore che tutt’ora è in corso. Le persone non possono nemmeno disintossicarsi dalle notizie perché, in un’epoca in cui tutto è collegato, ne sono inevitabilmente circondate. E se prima il terrore si traduceva nel dover correre alla ricerca di un saturimetro, adesso c’è l’allarmismo per le pillole di iodio in caso di guerra nucleare. Il problema, però, è che più le persone hanno paura per la loro incolumità, più si dividono.
Ognuno cerca la sua protezione e chiunque possa ostacolarla deve essere fermato. Per cui non abbiamo soltanto il singolo individuo che combatte contro il suo simile per un prodotto o un ideale, ma intere nazioni che non riescono a mettersi d’accordo nemmeno di fronte al rischio di un collasso economico collettivo. Stiamo assistendo soltanto adesso al concreto pericolo del sovranismo, propagandato per anni. “Prima gli italiani”, “America First”, “Prima gli ungheresi”, la Brexit, e adesso non deve stupire se la Germania sta pensando prima i tedeschi o l’Olanda gli olandesi. Questo perché manca il senso di comunità e gli ideali che stavano alla base della nascita dell’UE non erano sufficientemente solidi. Se non c’è unità d’intenti ai vertici nemmeno per il price cap sul gas, viene naturale immaginare la disgregazione sociale che porta a lotte fratricide su qualsiasi argomento.
Stiamo perdendo ogni certezza e la confusione regna sempre più sovrana. Siamo bloccati, non riusciamo a muoverci, e in ogni caso probabilmente non sapremmo dove andare perché abbiamo perso la bussola (se l’abbiamo mai avuta). I nostri punti di riferimento da due anni e mezzo a questa parte si sono sgretolati uno dopo l’altro e così ora ci ritroviamo al buio, a gattonare alla ricerca di un interruttore per accendere la luce. L’assenza di coesione scatena reazioni impulsive, la prevaricazione sugli altri ed è deleteria per l’intera comunità. Forse, l’unico modo per uscirne è accettare il disorientamento, o almeno rendersi conto della situazione in cui ci troviamo e delle nostre stesse fragilità. D’altronde, il primo passo per superare un trauma è riconoscerlo, dargli una forma, per tentare di metabolizzarlo. Non so se il nostro avrà quella di una proteina Spike, di un missile russo o di una bolletta del gas, ma sicuramente non possiamo dargli quella del nostro vicino di casa o di uno sconosciuto su Facebook, altrimenti, divisi, “ne usciremo peggiori”.