In una società che limita e condanna il piacere, godere è un atto politico - THE VISION
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Siamo abituati a pensare al piacere come a un momento intimo, privato. La nostra educazione ci impone di nasconderlo il più possibile e ci ha insegnato a vergognarci di tutto ciò che appartiene al nostro corpo, specialmente nella sua manifestazione più istintuale. Ma questa censura non è uguale per tutti: nella storia le donne e i soggetti marginalizzati hanno subìto una repressione più grave e solo negli ultimi anni si stanno riappropriando del piacere non solo come diritto, ma come vero e proprio atto politico.

La censura del piacere femminile ha radici molto antiche. Nella Vita di Macrina, Gregorio di Nissa racconta la storia della fondatrice del primo monastero femminile della storia. Macrina, donna bellissima vissuta nel IV secolo a.C. e rimasta vedova precocemente, inventa per se stessa e per l’anziana madre, anch’ella vedova, un nuovo modo di vivere in cui ci si ritira da ogni preoccupazione mondana per votarsi alla contemplazione. Se per una donna dell’età tardoantica non c’era niente di più importante che essere una brava moglie e madre, con il monachesimo Macrina crea un modello ancora migliore: la possibilità di essere moglie e madre di Cristo, ma senza “lasciarsi andare a niente di disdicevole e di tipicamente femminile”, ovvero diventare una creatura “la cui esistenza si svolge al confine fra natura umana e incorporea”. Una moglie e una madre ordinarie infatti avranno comunque desideri, passioni ed emozioni; Macrina, invece, si è “elevata al di sopra della natura” ed è riuscita a rinunciare completamente al corpo.

Sebbene i pregiudizi sulle donne abbiano radici molto antiche, è proprio nell’epoca di Macrina che qualcosa si incrina definitivamente per il genere femminile. La secolare spaccatura tra anima e corpo, tra logos e natura, ora chiede alle donne uno sforzo ulteriore. Non c’è solo la condanna atavica a essere schiave del proprio corpo e dei propri istinti, ma ora si deve aspirare – mentre si è in vita – a un corpo senza corpo, in totale contraddizione con quello che è sempre stato il ruolo delle donne nella società, ovvero essere in un certo senso “solo corpo”, assolvere alla riproduzione. Anche se alcune donne trovarono nella vita monastica un modo per sfuggire alle costrizioni sociali, il modello della donna incorporea – impossibile da raggiungere – si impose come strumento di controllo. L’unica cosa a cui una donna può rinunciare in via definitiva per poter aspirare a quel corpo senza corpo è il piacere. Il piacere viene infatti considerato anormalità ed esagerazione. Per la donna comune è considerato superfluo, oltre che intrinsecamente impuro.

 Oggi, gli studiosi sono abbastanza concordi nel ritenere che il piacere femminile sia funzionale (ma non indispensabile) alla riproduzione. Tutti i mammiferi femmina hanno infatti la clitoride posta in prossimità della vagina, che viene stimolata durante l’accoppiamento. In molti, l’accoppiamento coincide con l’orgasmo e con l’ovulazione, ma nelle femmine umane – in cui la clitoride si è progressivamente allontanata dalla vagina e in cui l’ovulazione non avviene per forza di cose contemporaneamente alla copulazione – il piacere è ormai più indipendente e fine a se stesso. Ma, scrive la filosofa Catherine Malabou, è proprio questa indipendenza che ha fatto sì che “l’autonomia del piacere femminile [sia] stata e forse dovrà sempre essere difesa, argomentata, costruita”.

Come emerge dal dialogo tra la scrittrice e attivista culturale Djarah Khan e la fumettista Fumettibrutti nella Masterclass di Basement Café by Lavazza: “Il diritto al piacere come atto politico”, il potere si manifesta come controllo sul piacere. La negazione e la censura del piacere sono state nella storia uno strumento di controllo sociale e politico di grande efficacia per le donne e tutti i soggetti ai margini: l’accusa di stregoneria veniva formalizzata quando si provava di aver avuto rapporti sessuali col diavolo; le donne “isteriche” venivano rinchiuse nei manicomi; e le mutilazioni genitali femminili ancora oggi servono a ribadire l’ordine sociale patriarcale. Queste usanze rendevano e in certi casi rendono ancora l’uomo il solo responsabile del piacere femminile, non solo perché è colui che lo procura, ma anche perché è colui che decide quando e come è ammissibile provarlo. Questa convinzione può sembrarci superata, ma fino a pochi anni fa si ignorava o sminuiva il ruolo della clitoride nel piacere femminile pensando che soltanto la penetrazione potesse far provare un piacere vero o “completo”, per usare un lessico freudiano, tanto che fino al 1998 nessuno scienziato si era degnato di sezionare e descrivere quest’organo in ogni sua parte.  

Fumettibrutti e Djarah Khan nella Masterclass di Basement Café by Lavazza

Quindi il piacere non può che avere una forte connotazione politica, non solo quando a esprimerlo è una donna a cui è stato storicamente negato, ma ancora di più quando a farlo sono quei soggetti che la cultura ha da sempre considerato portatori di una sessualità “anormale”, come le persone nere o queer. La convinzione che le persone non bianche abbiano una sessualità eccessiva e animalesca ha giustificato abusi di ogni tipo. “La sessualità è sempre stata utilizzata come uno strumento per controllare, sfruttare e giustificare gli abusi fisici e sessuali nei confronti delle donne nere. Donne nere come pantere, donne nere come schiave del sesso, donne nere come creature esotiche che si muovono e abitano corpi esagerati, deformi e pieni di desiderio, hanno attraversato i secoli del subconscio bianco europeo fino ad arrivare a noi. Fino a colpire in maniera diretta la nostra intimità, la nostra sfera pubblica e affettiva”, spiega la scrittrice e attivista culturale Djarah Khan. “C’è una linea netta che separa i corpi delle donne bianche da quelli delle donne nere. E la promiscuità sessuale è uno dei caratteri peggiorativi che il pensiero bianco europeo ha sempre attribuito alle persone africane e afrodiscendenti”. 

Anche la sessualità queer è oggetto di numerosi pregiudizi. L’omosessualità nella storia è stata concettualizzata come un eccesso di desiderio, da sfogare in modi diversi da quelli consentiti dalla norma eterosessuale. La negazione del piacere ha portato a una lunga storia di patologizzazione: l’omosessualità è stata tolta dalla classificazione delle malattie mentali dell’Oms soltanto nel 1990 e l’incongruenza di genere soltanto nel 2018. Tuttavia, la volontà di contenere il desiderio omosessuale è ancora molto presente nella società, come testimonia la diffusione delle cosiddette terapie riparative, che cercano di “curare” l’omosessualità ricorrendo ai mezzi più diversi, dai riti religiosi all’elettroshock. Sono sempre di più i Paesi che li stanno bandendo, eppure si stima che circa il 21% della popolazione LGBTQ+ mondiale abbia subìto questi trattamenti. 

L’espressione del piacere resta quindi ancora condizionata da fattori come il genere, l’etnia e l’orientamento sessuale, la presenza di disabilità, ma anche la classe o il peso corporeo. Come racconta Amy Erdman Farrell nel libro Fat Shame, un filo rosso collega il cibo, il piacere sessuale e la povertà. Appetito è una parola che si usa in modo indifferente per indicare la fame e il desiderio sessuale, ma nell’Ottocento all’equazione si aggiungono anche le condizioni economiche. Se in passato il grasso era segno di prosperità, in quest’epoca la borghesia industriale adotta il modello della magrezza, cominciando a disprezzare il grasso come sintomo di un individuo non civilizzato perché incapace di contenere i propri istinti. Le teorie pseudo-evoluzionistiche dell’epoca giustificavano l’odio per il grasso illustrando come fosse una caratteristica delle civiltà primitive. Cesare Lombroso, nei suoi studi sulla criminalità femminile, sosteneva che le donne delinquenti fossero più grasse delle donne oneste e più propense alla prostituzione, che per loro altro non era che un “normale fatto della vita” a causa delle loro caratteristiche animalesche e malate. Se da un lato queste convinzioni hanno creato lo stigma della grassezza, che persiste ancora oggi, dall’altro hanno contribuito alla feticizzazione del corpo grasso, considerato “naturalmente” propenso al piacere e alla promiscuità sessuale. Ed è anche per questo motivo che molti uomini si imbarazzano a dichiarare pubblicamente la propria attrazione per tutti quei corpi che la società considera non conformi.

Il discorso comprende sia la dimensione individuale che quella sociale. Il nostro modo di intendere il piacere, infatti, è profondamente influenzato dall’opinione sociale. Il filosofo Herbert Marcuse credeva che, proprio perché così osteggiato, il piacere potesse diventare il motore di una rivoluzione non solo sessuale, ma di tutta la società. Secondo la teoria formulata in Eros e civiltà, nella società civile le energie che appartengono naturalmente al godimento vengono sublimate in altre attività più socialmente utili e apprezzate, in primis la produttività sul lavoro. L’eros al contrario è un’attività gratuita, naturale e che si sottrae a ogni forma di controllo e obbedienza. Per questo Marcuse ne rivendicava positivamente il ruolo politico, considerandolo una forza dirompente. Il problema è che in Italia, ma non solo, fin dai primi anni di vita le persone vengono educate alla sua negazione, oppure a viverlo in maniera distorta e a volte violenta o abusante, e soprattutto perché nelle scuole non è ancora stata introdotta l’educazione sessuale ed emotiva e nella maggior parte dei casi nemmeno all’interno delle famiglie se ne parla. Solo attraverso l’informazione e la normalizzazione di questi argomenti è possibile far sì che ciascuno capisca di avere il diritto di provare piacere, senza pregiudizi, moralismi e rischi di essere vittima di domini non consensuali.

Quando si parla di desiderio e potere, quindi, il discrimine sta tutto nell’autonomia della sua espressione. Ci si aspetta che possa essere confinato solo in luoghi e tempi in cui è appropriato, come in quella coppia bianca eterosessuale che continua a essere l’unico modello possibile da seguire.  La società ha sempre cercato di attribuire un valore morale negativo al piacere e di conseguenza lo ha limitato scegliendo quando fosse opportuno mostrarlo, usandolo come strumento di controllo o attribuendone di volta in volta eccesso o mancanza. Per questo il piacere è un fatto politico: nell’esercitarlo, scrive Carla Lonzi, “la donna vi scopre la circostanza per operare quel salto di civiltà che corrisponde al suo ingresso nel rapporto erotico come soggetto”, non più come oggetto.


Questo articolo è stato realizzato da THE VISION in collaborazione con Basement Café by Lavazza per la prima stagione delle Masterclass, lo spin off dedicato agli approfondimenti di grandi ospiti provenienti da diversi ambiti che, dal mondo giornalistico a quello editoriale, dalla musica all’attualità, parleranno delle loro passioni. Le Masterclass, della durata di unora, sono completamente gratuite. Per partecipare è sufficiente iscriversi sul sito. 

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