In un'economia interconnessa indennizzare solo le chiusure di alcune attività è ottuso e inutile - THE VISION

Se durante il primo lockdown la frase più inflazionata era “nessuno si salva da solo”, la situazione attuale sembra suggerire la modifica dello slogan in “si salvi chi può”. La narrazione del governo, che fino a qualche tempo fa escludeva di dover ricorrere a nuove chiusure, si è scontrata con la realtà e ha determinato una continua rincorsa al virus. Mentre la diffusione del contagio cresceva rapidamente, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte annunciava misure progressivamente più restrittive.

La decisione di chiudere soltanto alcune attività, lasciando aperte tutte le altre, ha comportato la necessità di prevedere degli specifici indennizzi per le imprese e gli individui che hanno subito delle perdite a causa delle restrizioni. Anche in questo caso, il governo si è preoccupato molto della comunicazione e ha dimenticato di adottare le misure necessarie a proteggere l’economia nel suo complesso. Mentre Giuseppe Conte annunciava che gli ormai noti ristori sarebbero arrivati direttamente sul conto corrente dei beneficiari, infatti, cresceva il malcontento tra le categorie escluse dai rimborsi. In un’economia interconnessa prevedere degli indennizzi rivolti soltanto ad alcune attività professionali è illusorio e pericoloso. Illusorio perché si immagina un mondo che non esiste, ovvero una produzione a compartimenti stagni per cui la chiusura di un esercente non dovrebbe produrre effetti sull’intera filiera coinvolta nella creazione e nella vendita del prodotto finale. Pericoloso perché si classificano indirettamente imprese di serie A e di serie B, peggiorando ulteriormente il clima che si respira in Italia. 

Giuseppe Conte

L’esecutivo ha cercato di mettere una pezza con il cosiddetto decreto ristori bis, allargando la platea dei codici Ateco delle imprese che possono richiedere gli indennizzi. Sono però ancora numerose le associazioni di categoria che lamentano danni al loro settore a causa delle misure adottate per contenere la diffusione del virus. Si tratta di imprese eterogenee che vanno dalla vendita al dettaglio di fiori al commercio di calzature, oltre a scuole di lingue e agenti di commercio. Le richieste di queste categorie sono legate da un unico filo conduttore. In un contesto di grave crisi economica, i provvedimenti restrittivi emanati dal governo non colpiscono soltanto gli esercizi commerciali costretti a chiudere, ma hanno un forte impatto anche su tutte le attività economiche che fanno direttamente o indirettamente parte della filiera. Per esempio, la scelta di incentivare la didattica a distanza nelle scuole e lo smart working nei luoghi di lavoro incide direttamente sulle attività svolte dalle aziende nei settori delle mense e della distribuzione automatica di cibi e bevande che rischiano di non ricevere alcun tipo di risarcimento o indennizzo. Si tratta di imprese che stanno registrando cali di fatturato superiori al 50% e che danno un impiego a decine di migliaia di lavoratori in Italia. 

Utilizzare i codici Ateco per emanare norme di legge ha già mostrato tutti i suoi limiti durante la scorsa primavera. Da una parte, infatti, moltissime imprese avevano cambiato il proprio codice Ateco pur di risultare tra le attività essenziali e rimanere aperte. Dall’altra quelle che avrebbero dovuto chiudere autocertificavano, in assenza di controlli efficaci, di far parte di una filiera essenziale per continuare la loro attività ordinaria. La scarsa disponibilità di risorse statali non può però essere fatta pagare alle aziende che lavorano all’interno di una filiera. 

La diffusione del virus ha sconvolto radicalmente le catene attraverso cui materie prime, semilavorati e prodotti finiti circolano sul territorio nazionale e internazionale. In un’economia profondamente interconnessa, indennizzare soltanto parte dei rivenditori di prodotti finiti significa guardare il dito e non la Luna. Se si rimborsano soltanto i ristoratori costretti a lavorare attraverso la consegna a domicilio, ma non si prevede alcun indennizzo per chi produce la materia prima, per esempio, non si fa altro che spostare il problema da una categoria di imprenditori a un’altra senza benefici significativi per la nostra economia. La globalizzazione ha determinato una crescente specializzazione da parte di tutti gli operatori economici, che possono essere descritti come dei piccoli ingranaggi all’interno di una macchina estremamente complessa. Prendersi cura soltanto di una parte di questi ingranaggi non ci consentirà di migliorare le prestazioni di una macchina che già versa in condizioni critiche.

Se è possibile trovare qualcosa di positivo nella terribile crisi sanitaria ed economica che stiamo attraversando, è senza dubbio il dibattito attraverso cui l’opinione pubblica sta rivalutando l’importanza che lo Stato riveste in ambito economico. Ci siamo accorti che l’intero comparto della pubblica amministrazione è arrivato impreparato a questa pandemia di portata storica, anche a causa di tagli che ormai durano da più di 30 anni. Il nostro compito è pretendere con forza uno Stato moderno, dotato di nuove competenze, in grado di indirizzare il benessere della comunità e garantire le libertà dei suoi cittadini. Questo processo di riforma, però, deve essere accompagnato da una politica in grado di riacquistare la credibilità perduta, anche attraverso misure impopolari. La chiusura totale dell’Italia, fatte salve le attività strettamente essenziali, sarebbe stata una mossa coraggiosa che d’altro canto avrebbe verosimilmente scatenato immediate contestazioni. Nel lungo periodo, però, una misura generalizzata di tale portata avrebbe causato meno fratture tra i cittadini più colpiti dalla crisi, restituendo al governo la credibilità necessaria a governare il Paese.

Abbiamo deciso di vivere in una società caratterizzata da un numero pressoché infinito di connessioni. Sono connesse le persone grazie ai social network, sono connessi i servizi che ogni giorno riceviamo da migliaia di provider, sono connesse le attività produttive che contribuiscono a realizzare i prodotti che ogni giorno acquistiamo e consumiamo. Questa tendenza deve essere seguita da provvedimenti coerenti che tengano conto della realtà dei fatti più che della relativa narrazione. Più volte è stato scritto che la pandemia rappresenta la pietra tombale della stagione del populismo. In realtà la comunicazione della politica continua a essere ossessionata dai sondaggi e dal gradimento che i leader da soli riescono a ottenere tra i cittadini. La fine del populismo potrà essere proclamata quando tornerà finalmente di moda l’antico adagio secondo cui un politico pensa alle prossime elezioni mentre uno statista pensa alle prossime generazioni. 

Donald Trump
Jair Bolsonaro

Durante la prima fase della pandemia gli errori del governo erano accompagnati da molte attenuanti. Nessuno nella storia recente aveva gestito un evento della portata di una pandemia. Dopo nove mesi gli alibi sono molto più deboli. Abbiamo imparato a conoscere il virus e a comprendere meglio le modalità di contagio. Era dunque lecito aspettarsi una gestione diversa della seconda ondata. Purtroppo, invece, le istituzioni del nostro Paese hanno continuato a occuparsi troppo del consenso immediato e troppo poco della condizione sanitaria ed economica dei cittadini. La scelta di indennizzare soltanto chi è stato direttamente colpito dalle misure restrittive risponde esattamente a questa logica del consenso.  In questo momento abbiamo un disperato bisogno di una visione di ampio respiro che ci consenta di uscire dignitosamente dalla crisi che ci ha travolto. Perché nessuno si salva da solo. O almeno così continuiamo a ripeterci.

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