Perché il Decreto Clima non è sufficiente per salvarci dal disastro ambientale

A fine settembre la Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza 2019 (Def) preannunciava una riduzione dei sussidi ambientalmente dannosi (Sad). Con tagli del 10% all’anno a partire dal 2020 – corrispondenti allo 0,1% del Pil – per raggiungere l’azzeramento entro il 2040 e nuove imposte ambientali, il governo giallorosso voleva sostenere la transizione ecologica e presentarsi in discontinuità con il precedente sui temi ambientali. Le buone premesse sono state poi edulcorate dalla bozza del Decreto Clima, che ha chiarito come l’entità dei tagli sarà stabilita ogni anno dalla rispettiva manovra di bilancio. Per il momento, quindi, il governo italiano continua a non fare nulla di concreto per l’ambiente.

I tagli ai sussidi ambientalmente dannosi dovevano comparire nel Decreto Clima, approvato il 10 ottobre scorso e pubblicato il 14. Salutato dal ministro dell’Ambiente Sergio Costa come “il primo atto normativo del nuovo governo che inaugura il Green New Deal” e dal M5S che sul blog lo ha definito il “primo decreto legge totalmente ambientale realizzato in Italia” l’attesa norma si mostra più blanda di quanto annunciato. Con un investimento stimato di 450 milioni di euro spalmati su tre anni, contiene le indicazioni di competenza nazionale necessarie ad attuare la direttiva europea 2008/50 e contrastare i cambiamenti climatici. Tra queste hanno un ruolo di primo piano le misure per la mobilità sostenibile, come gli incentivi – in forma di “buoni mobilità” per abbonamenti al trasporto pubblico e l’acquisto di biciclette – per la rottamazione di autovetture fino alla classe Euro 3 o motocicli fino alla classe Euro 2 ed Euro 3 a due tempi. Inoltre, 20 milioni l’anno serviranno a creare o migliorare dove già presenti le corsie preferenziali per i trasporti pubblici, mentre le città con almeno 100mila abitanti beneficeranno di ulteriori fondi per i mezzi ibridi o elettrici del trasporto scolastico sostenibile.

Sergio Costa

Il capitolo dedicato alla lotta alla plastica – che con la Legge di Bilancio 2020 verrà implementato da una tassa sugli imballaggi che rischia di pesare sui prezzi finali delle merci e quindi sulla spesa dei cittadini – prevede misure per l’incentiivo dei prodotti sfusi o alla spina per gli esercenti che li mettano in vendita nei propri negozi; un programma sperimentale di cura del verde e forestazione urbana da 15 milioni di euro per gli anni 2020 e 2021 e un commissario unico presso le amministrazioni locali che vigilerà sulle infrazioni in materia ambientale completano il Decreto, insieme alle direttive sulla trasparenza dei rilevamenti dell’inquinamento atmosferico, della qualità dell’aria e dell’acqua.

Davanti alla mancata istituzione del Comitato Interministeriale per la lotta ai cambiamenti climatici, previsto dalle bozze, e all’assenza dei tagli ai sussidi dannosi gli attivisti di Fridays for Future sono sono detti insoddisfatti e rifiutano di definirlo Decreto Clima. Il ministro Costa ha precisato che “La riduzione dei sussidi ambientalmente dannosi, inizialmente prevista nel Decreto Clima, è contemplata nella legge di bilancio”. I provvedimenti in materia ambientale di tale normativa riguardano un fondo per contribuire agli investimenti privati sostenibili nell’ambito del Green new deal, la proroga delle detrazioni per la riqualificazione energetica, le ristrutturazioni edilizie e l’acquisto di mobili ed elettrodomestici di classe energetica elevata. Sono provvedimenti utili ma decisamente insufficienti, che andrebbero integrati in quella che per l’economista Jeremy Rifkin deve essere una vera rivoluzione industriale per un cambiamento radicale dell’attuale sistema socio-economico.

Si tratta di mettere in discussione tutto ciò che fino a oggi è stato considerato inevitabile. Questo cambiamento è auspicato anche dai promotori del Green new deal per l’Europa che prevede l’investimento del 5% del Pil europeo (500 miliardi di euro) per riconvertire i sistemi produttivi. Le cifre sono impegnative ma, secondo i promotori del Green new deal per l’Europa, non impossibili: una tassazione europea, fondamentale non solo per ottenere fondi per finanziare la transizione, ma anche per raggiungere la giustizia sociale e ambientale, andrebbe imposta alle multinazionali che eludono le tasse grazie a paradisi e sconti fiscali. A questo potrebbero aggiungersi delle ingenti carbon tax, strumento efficace per disincentivare le emissioni, già usato in Europa da Finlandia, Danimarca, Slovenia, Polonia, Norvegia, Svezia, Francia, Spagna, Portogallo e recentemente introdotto in Germania. Si tratta di un’aliquota che colpisce in modo diretto la vita quotidiana delle persone che usano l’auto per lavoro e che quindi va introdotta con cautela, prendendo le misure necessarie per tutelare la giustizia sociale e disinnescare sul nascere moti di protesta come i gilet gialli francesi.

La tassa che dal 1999 paghiamo sulle emissioni ogni volta che facciamo benzina in Italia non può più essere distinta dalle varie accise accorpate in una sola, dato che non sempre il ricavato viene utilizzato per iniziative verdi. Considerando che le emissioni di gas serra in Italia non calano dal 2014, forse bisognerebbe rivedere il sistema per colpire i carburanti nocivi e impiegare i proventi della tassazione in modo serio e diretto. L’ex ministro dell’Ambiente Edoardo Ronchi sottolinea che “Per allinearci con la traiettoria dell’Accordo di Parigi per il clima dovremmo almeno dimezzare, entro il 2030, le emissioni del 1990 […]. Secondo le stime dell’Ispra, con le misure attualmente vigenti, arriveremmo a 380 megatoni (Mton) al 2030. Ci mancano misure per tagliare 120 Mton nei prossimi 10 anni,12 all’anno”. Secondo le stime, una carbon tax ben congeniata potrebbe far guadagnare allo Stato italiano 8 miliardi di euro l’anno, oltre a ridurre in modo drastico le emissioni.

Lo strumento più importante del Green New Deal europeo, però, non può essere l’introduzione di nuove tasse, specialmente nel nostro contesto economico. I governi dovrebbero puntare ai finanziamenti pubblici tramite green bond. Se un bond è uno strumento finanziario che rappresenta un prestito fatto da un investitore a un debitore e un governo o una società possono emetterne e venderne a vari investitori, un green bond nasce solo per gli investimenti verdi. Oggi, invece, lo Stato italiano è impegnato a finanziare il settore energetico (per lo più da fonti fossili) tramite sussidi indiretti, come le agevolazioni o le riduzioni delle accise e i rimborsi a favore degli autotrasportatori, l’esenzione dall’accisa sui prodotti energetici usati come carburanti per gli aerei e le royalties sull’estrazione di greggio e gas naturale. A questi si aggiungono anche i sussidi diretti previsti dal provvedimento 6/92 del Comitato Interministeriale dei Prezzi (Cip) da 27 anni. Fa parte dei sussidi ambientalmente dannosi anche l’Iva agevolata di cui godono il commercio di fertilizzanti, l’energia elettrica e gas per imprese estrattive, agricole e manifatturiere e lo smaltimento in discarica di rifiuti indifferenziati. Nel complesso stiamo parlando di 75 sovvenzioni dannose per l’ambiente sulle 161 totali catalogate dal Ministero, per una cifra annuale che si attesta sui 19,3 miliardi di euro.

Si tratta di un bel contrasto con quanto dichiarato dal premier Conte, per il quale “L’Italia, in materia di green economy e nella promozione di misure che mettono al centro l’economia circolare, ha un ruolo di primato e vuole essere protagonista di un’inversione di marcia […] L’Italia può fungere da traino, per l’intera Comunità europea”. Non è d’accordo il direttore esecutivo di Greenpeace Italia Giuseppe Onufrio che sul Decreto Clima ha commentato: “Quello varato oggi dal Consiglio dei ministri […] inciderà davvero molto poco sulla lotta all’emergenza climatica in corso, per cui occorrerebbero provvedimenti ben più radicali”. Se è vero – e gravemente contraddittorio con gli impegni presi in sede internazionale – che in Europa tutti i Paesi finanziano in qualche modo le fonti fossili, l’Italia è lontana anni luce dai 54 miliardi di euro stanziati dalla Germania per la difesa dell’ambiente entro il 2023 e dalle sanzioni previste dal 2021 per chi fa benzina, riscalda la casa con fonti fossili o prende l’aereo, utilizzate per finanziare iniziative green che puntano al taglio del 55% delle emissioni tedesche entro il 2030. In quanto a mobilità sostenibile, le ferrovie olandesi offrono sconti e agevolazioni per studenti, lavoratori pendolari e per chi viaggia al di fuori delle ore di punta, mentre il ricco Lussemburgo può permettersi di rendere gratuito il trasporto pubblico. La Danimarca, leader nell’eolico, è certa di raggiungere il 50% dell’energia da fonti rinnovabili (principalmente da eolico, ma anche da centrali a moto ondoso, biomasse e biogas) entro il 2030, abbandonando il carbone per arrivare nel 2050 a zero emissioni. Tornando al carbone carbone, la Spagna ha dato addio alla maggior parte delle sue miniere nel 2018 con un piano di investimenti e ricollocazione dei lavoratori da 250 milioni di euro, mentre la Germania si è impegnata a eliminarne l’utilizzo entro il 2038; al contrario, continuano a sfruttare ampiamente i propri giacimenti la Polonia, la Slovacchia e la Repubblica Ceca.

Tutti insistono nel finanziare compagnie petrolifere e soluzioni inquinanti, mentre sono rari i governi che hanno il coraggio di colpire le industrie nocive quanto sarebbe necessario. Addirittura, il ministro Costa ha precisato a margine della presentazione del decreto che “La nostra idea è fare un taglio costante negli anni, da qui al 2040, ma senza penalizzare nessuno”. Siamo ancora troppo lontani da un’azione europea comune nella lotta all’emergenza climatica e, per quanto possano servire alberi in città e migliorie al trasporto scolastico, per soluzioni radicali e davvero efficaci servono decisioni politiche nette, che l’Italia, per il momento, si guarda bene dal mettere in pratica. Siamo molto lontani dall’essere quel traino verde per l’Europa di cui ha parlato Conte.

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