Dopo l’emergenza sanitaria, la crisi economica prevista a settembre rischia di essere devastante

Con il passare dei mesi è sempre più chiaro che la nostra società, indebolita dalle politiche economiche neoliberiste senza freno, non era pronta ad affrontare una pandemia di queste proporzioni. I dati diffusi dall’Istat relativi all’occupazione nel mese di aprile hanno evidenziato una netta diminuzione dell’occupazione, con oltre 270mila posti di lavoro persi. Durante l’intera durata delle misure di contenimento si è stimata una diminuzione complessiva di 400mila unità. Siamo di fronte a una crisi epocale che non finirà in tempi brevi e che potrebbe ancora peggiorare.

Milano e Napoli durante il lockdown per l’emergenza COVID-19

Secondo le previsioni diffuse dall’Ocse a inizio giugno, il prodotto interno lordo italiano scenderà dell’11,3% nel 2020 per poi recuperare parzialmente nel 2021 con un aumento del 7,7%. Questo scenario potrebbe però aggravarsi se il Coronavirus tornasse a diffondersi in autunno, costringendo il governo a imporre un nuovo lockdown. In questo caso, il Pil calerebbe del14% nell’anno in corso e riuscirebbe a recuperare soltanto un 5,3% nell’anno successivo. La cassa integrazione generalizzata, il blocco dei licenziamenti per ragioni economiche e le altre misure decise dall’esecutivo hanno arginato in parte gli effetti della crisi, ma si tratta di rallentare una crisi di cui vedremo la gravità con l’arrivo dell’autunno. L’Ocse prevede una ripresa molto lenta, con una recessione che avrà effetti destinati a durare nel tempo e ripercussioni sulle fasce di popolazione più vulnerabili. Le politiche economiche hanno bisogno di ripartire con nuove priorità, a cominciare dalla necessità di riqualificare tutte le persone che si trovano a rischio espulsione dal mercato del lavoro.

Il governo italiano ha deciso di bloccare i licenziamenti individuali e collettivi per ragioni economiche fino al prossimo 17 agosto. Si tratta di una misura eccezionale che ha soltanto un precedente alla fine della seconda guerra mondiale. La maggioranza sta discutendo sulla possibilità di estendere il divieto di licenziamento fino al prossimo dicembre consentendo allo stesso tempo alle imprese di continuare a tenere i dipendenti a casa in cassa integrazione. Una soluzione che presenta anche dei rischi: si tratta infatti di una misura di dubbia costituzionalità, con molte imprese in crisi a cui sarebbe precluso licenziare per evitare il fallimento. Un altro limite evidente del divieto è rappresentato dal fatto che la misura garantisce il posto di lavoro soltanto ai dipendenti assunti a tempo indeterminato, con il risultato di abbandonare i lavoratori a termine, gli stagionali e tutti i giovani che sono stati costretti ad aprire una partita Iva pur di lavorare. Continuare a tutelare esclusivamente i dipendenti a tempo indeterminato acuirebbe una frattura sociale già molto marcata nel nostro Paese.

La proroga del blocco dei licenziamenti ha grandi limiti anche da un punto di vista economico. Le aziende spesso competono in mercati internazionali e la loro chiusura comporta l’erosione di quote di mercato da parte dei concorrenti. I processi produttivi e l’organizzazione aziendale necessitano di tempi lunghi per tornare ai livelli di produttività raggiunti prima dell’avvento della pandemia. I costi di queste operazioni saranno così scaricati sui lavoratori. Più tempo teniamo le imprese in un limbo, più questi costi saranno elevati. Bisogna muoversi subito per creare una rete di protezione sociale che punti a riqualificare i dipendenti più esposti, con politiche attive del lavoro che siano in grado di accompagnare i disoccupati verso un nuovo impiego.

Il mondo della finanza non suscita meno preoccupazioni. Il sistema economico prima del Covid era già minato da un’alta vulnerabilità del debito accumulato e un generalizzato accesso alla leva finanziaria di carattere speculativo. Ora non possiamo continuare a misurare la forza di un’economia sulla base del debito che è in grado di produrre. Questa generica unità di misura non tiene conto infatti della qualità del debito, della sua solvibilità e degli effetti che si producono sull’economia reale. I mercati ripongono per il futuro una grande fiducia nelle iniezioni di liquidità promesse dalle banche centrali e per questo motivo continuano a speculare nella convinzione che non si arriverà a un’ennesima crisi di sistema. Se i debiti prodotti diventano insostenibili, però, il sistema del credito rischia di crollare, aggravando le conseguenze di una recessione che già oggi è paragonata al crollo di Wall Street del 1929.

La speranza, molto diffusa, che saremo in grado di risolvere la crisi in tempi brevi soltanto attraverso politiche monetarie espansive è solo l’estremo tentativo di difendere un modello di crescita che produce ricchezza soltanto per pochi e debiti per un numero crescente di individui.

Per questo l’attuale modello economico deve essere superato. Il falso mito secondo il quale non ci sarebbe alternativa è privo di fondamento e va smentito con azioni concrete. Lo Stato deve riacquistare centralità, assumendo la veste di attore protagonista in grado di coordinare diversi settori e di redistribuire le risorse economiche a disposizione. Purtroppo in questo momento la pubblica amministrazione italiana non ha i mezzi per svolgere questo ruolo. Proprio per questo dobbiamo rafforzare le competenze dello Stato, con personale giovane e dinamico che proponga soluzioni innovative per tutelare le classi sociali più vulnerabili. Continuare ad affidare il nostro futuro agli interessi delle grandi multinazionali significa esporsi a tempo indeterminato all’aumento delle diseguaglianze e del conflitto sociale.

Numerosi autori hanno approfondito il tema delle patologie psicologiche connesse con il sistema economico in cui siamo costretti a vivere. Per citarne uno, Mark Fisher con il suo Realismo capitalista ha messo in evidenza la depressione collettiva e i disturbi mentali che gran parte dei giovani occidentali hanno vissuto a seguito della crisi finanziaria del 2008. Oggi rischiamo di trovarci dentro una realtà ancora più cinica e crudele rispetto alle crisi del passato. Una famosa provocazione attribuita a volte a Fredric Jameson e altre a Slavoj Žižek afferma che è più facile immaginare la fine del mondo che quella del capitalismo. Questo è il momento per reinventare il secondo per tornare a vivere in un mondo dove il concetto di ricchezza per pochi sia finalmente soppiantato da quello di benessere e dignità per la maggioranza.

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