Conte ha avallato il peggio di Salvini per 14 mesi. Un discorso non lo assolve.

Questi quattordici mesi di governo gialloverde ci hanno consegnato una certezza: gli italiani sono innamorati di Giuseppe Conte. Sulla scorta di una proverbiale isteria di massa, il premier uscente è stato eletto dalla stragrande maggioranza dell’opinione pubblica come salvatore della patria, trovandosi a ricoprire il ruolo di protagonista indiscusso di questo agosto monopolizzato dalla politica. Conte è trattato dai propri sostenitori al pari di un supereroe: è il re dei consensi, fa esplodere gli applausometri, gli vengono dedicati cori da stadio che lo esortano a “non mollare”. I tempi in cui Rocco Casalino gli impediva di parlare per evitare figuracce sono finiti: Giuseppe è cresciuto, e ora sa cavarsela da solo. Tra i suoi superpoteri, il più celebre è certamente quello di far perdere la memoria all’elettorato: sembra quasi che per il professore Conte gli stessi difetti attribuiti in passato ad altri esponenti politici si trasformino in pregi. Come in preda a un incantesimo, chi poco meno di due anni fa, definiva Matteo Renzi un “premier non eletto da nessuno”, oggi tesse fieramente le lodi di un Presidente del consiglio figlio del compromesso tra Matteo Salvini e Luigi Di Maio.

Secondo gli ultimi sondaggi Ipsos, Conte è il politico più amato dagli elettori e stacca Matteo Salvini di ben 4 punti, raccogliendo il 58% delle preferenze. Con il terremoto istituzionale seguito alla crisi di governo innescata dal ministro dell’Interno lo scorso 8 agosto, la popolarità di Conte è cresciuta anche sui social: secondo i dati di Socialblade, dall’8 al 13 agosto Salvini ha perso 16mila follower su Twitter, mentre Conte ne ha guadagnati oltre 26mila, arrivando a sfiorare il milione di seguaci. Il 15 di agosto, con un post su Facebook, il presidente del Consiglio ha indirizzato poi una lettera aperta al “caro Matteo”, richiamando l’inquilino del Viminale all’assunzione di responsabilità per il caso della Open Arms, lamentandone la “fedele o ossessiva concentrazione nell’affrontare il tema dell’immigrazione riducendolo alla formula ‘porti chiusi’” e sottolineando la necessità di non dover “esibire posizioni di assoluta intransigenza” in merito agli sbarchi – ottenendo il triplo delle interazioni su Facebook rispetto al post di risposta di Salvini.  

In un raro lampo di lucidità, Conte sembra così aver riscoperto l’importanza di quei valori di umanità e tolleranza tanto osteggiati dai suoi colleghi di governo, preparando il terreno per il discorso di ieri in Senato con cui ha demolito Salvini, secondo quella che sembra una perfetta strategia per generare nuovi consensi. Il richiamo di Conte all’umanità e al rispetto dei diritti umani fondamentali fa sorridere se si pensa che ad avanzarlo è lo stesso presidente del Consiglio che ha apposto la propria firma su ben due decreti sicurezza – l’ultima appena qualche settimana fa – che, oltre a presentare dei palesi vizi di incostituzionalità, quei diritti umani li violano ripetutamente.

Lo scorso 18 maggio l’Alto Commissariato per i Diritti umani delle Nazioni Unite ha esortato l’esecutivo italiano a interrompere immediatamente l’iter di approvazione del decreto sicurezza bis, reputandolo illegittimo poiché “mette a rischio i diritti umani dei migranti, inclusi i richiedenti asilo”, “fomenta il clima di ostilità e xenofobia” e “viola le convenzioni internazionali”. Una posizione confermata due giorni dopo da una nota con cui l’Onu ha esortato le autorità italiane a “smettere di mettere in pericolo la vita dei migranti, compresi i richiedenti asilo e le vittime della tratta di persone, invocando la lotta contro i trafficanti. Questo approccio è fuorviante e non è in linea con il diritto internazionale generale e il diritto internazionale dei diritti umani”. L’infelice tendenza dell’esecutivo pentastellato a violare i diritti umani è stata evidenziata anche da Amnesty International che lo scorso anno ha pubblicato un rapporto che mette in luce i proverbiali passi indietro compiuti dal nostro Paese in materia di diritti, ponendo l’accento su aspetti come la “gestione repressiva del fenomeno migratorio”, la “erosione dei diritti umani dei richiedenti asilo”, la “retorica xenofoba nella politica” e gli “sgomberi forzati senza alternative”.

È importante, quindi, non perdere di vista il fatto che, a prescindere dall’illustre passato accademico, dalle auspicabili buone intenzioni e dalle classifiche di gradimento, Conte dovrebbe essere ricordato anzitutto come l’esponente di punta del governo che, per la prima volta nella storia repubblicana, ha istituzionalizzato il razzismo e la xenofobia, rendendoli fenomeni di costume. Per tutti questi motivi, quello degli italiani per il premier dimissionario è un innamoramento grottesco e incomprensibile: il j’accuse di Conte nei confronti di Salvini esprime concetti condivisibili, ma non può essere sufficiente per cancellare i quattordici mesi trascorsi a nascondere la testa sotto la sabbia di fronte ai ripetuti esercizi di autoritarismo del vicepremier leghista: quello che sta per volgere al tramonto è stato, a tutti gli effetti, un governo Salvini ante-litteram. 

Il ministro dell’Interno ha avuto la strada spianata nel portare a compimento i propri obiettivi programmatici in materia di immigrazione, in primis grazie all’assoluta connivenza della componente “gialla” del “governo del cambiamento”, di cui Giuseppe Conte è diretta emanazione. In questi mesi, il M5S ha messo in mostra tutto il suo masochismo, pur di restare al governo: Di Maio e soci sembravano quasi affetti da una sorta di sindrome di Stoccolma che li ha portati puntualmente a innamorarsi del proprio carnefice, scegliendo di graziare Matteo Salvini dal processo per il sequestro dei migranti della nave Diciotti, consentendogli di interpretare liberamente il ruolo di garante supremo dell’ordine e incassando, nel frattempo, clamorose sconfitte sui temi caldi della propria campagna elettorale (Tap, Tav e Ilva). 

Così, mentre il leader del Carroccio cannibalizzava i consensi del Movimento, ridimensionandolo al di sotto del 20%, quest’ultimo si preoccupava unicamente di evitare che la spina dell’esecutivo venisse staccata anzitempo, dimostrando una volta di più quel famoso “attaccamento alla poltrona” con cui, spesso, ha attaccato i propri oppositori politici. L’accorato intervento con cui, nella giornata di ieri, Conte ha rassegnato le proprie dimissioni, rivolgendo quel pesante (e prevedibile) atto di accusa nei confronti di Matteo Salvini, seppur impeccabile dal punto di vista espositivo e contenutistico, non cancella l’imbarazzante mutismo istituzionale che ha caratterizzato il suo mandato. 

Conte ha denunciato come “palesemente contraddittorio” il comportamento di un partito che “presenta la sfiducia senza ritirare i suoi ministri”, tacciando Salvini di “irresponsabilità istituzionale” per aver aperto la crisi in pieno agosto, di “scarsa cultura costituzionale”, di anteporre gli interessi personali e di partito a quelli nazionali, di strumentalizzare i simboli religiosi per foraggiare il proprio consenso elettorale e di fomentare le piazze al grido del “datemi pieni poteri”. In un sussulto d’orgoglio, Conte ha trovato addirittura il coraggio per accennare timidamente, per la prima volta di propria iniziativa, allo scandalo dei presunti finanziamenti russi percepiti dalla Lega dimenticando che, poche settimane prima, chiamato a riferire in Senato il proprio punto di vista sul tema, aveva liquidato la faccenda asserendo che “nessun membro del governo si è discostato dalla linea di adesione alla Nato” e che nessuna forza politica “avrebbe potuto imprimere rapporti internazionali in forza dei rapporti intrattenuti con altre forze politiche di altri Paesi”.

Come brillantemente esposto dalla senatrice Emma Bonino nel suo intervento di ieri, “le dissociazioni postume da un ministro di cui si è coperta ogni scelta, non sono granché convincenti”. Un’arringa di un’oretta, anche se infarcita di virtuosismi giuridici e di richiami ai valori costituzionali e alla correttezza istituzionale, non può lavare via l’onta di aver guidato l’esecutivo che ha forgiato la retorica dei “taxi del mare” per attaccare l’operato delle ong, che ha demonizzato l’accoglienza, che ha strizzato l’occhio all’estrema destra e che, parafrasando ancora le parole della Bonino, “ha trasformato l’Italia in un Paese incattivito dalla frustrazione e dal senso di impotenza”. Con le dimissioni di Conte, si chiude la parentesi di governo più di destra dopo il ventennio fascista: in poco più di un anno, quei valori su cui i Padri Costituenti hanno costruito le fondamenta del nostro ordinamento costituzionale sono stati messi costantemente in discussione. Del governo gialloverde ricorderemo soltanto i baci al rosario, le dediche al “cuore immacolato di Maria” e le bizzarre proposte di messa in stato d’accusa del Presidente della Repubblica. Con buona pace della “grammatica istituzionale” evocata ieri dall’avvocato del popolo.

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