I concorsi pubblici portano lavoro solo a chi vende libri e corsi sui concorsi pubblici

È il 2 settembre 2019, alla fiera della mostra d’Oltremare di Napoli si svolge la prima giornata delle prove preselettive per il maxi concorso bandito dalla regione Campania. I posti di lavoro da ricoprire riguardano diversi profili professionali e sono 2.175; le candidature 1.255.457 per 303.965 candidati. Una cifra enorme perché ogni candidato ha la possibilità di concorrere per più ruoli contemporaneamente. Il primo giorno si rivela un caos dal punto di vista organizzativo, per una serie di disguidi legati alle fotocopie dei test da sottoporre ai candidati. Una circostanza che crea tensioni tra i partecipanti, molti dei quali lavoratori, che decidono di abbandonare la prova prima dell’inizio.

Il maxi concorso in Campania mette in luce due dati: uno relativo al numero di persone in cerca di un’occupazione fissa, l’altro relativo all’inefficienza della macchina dei concorsi pubblici e alla loro poca affidabilità. I dati Istat di luglio sulla disoccupazione dimostrano gli effetti del Decreto dignità voluto da Luigi di Maio in veste di ministro del Lavoro: in Italia non si creano nuovi posti di lavoro e di conseguenza disoccupati e inoccupati aumentano, soprattutto tra le donne e i giovani. Il Sud Italia è purtroppo un capitolo a parte: la rilevazione di metà luglio fornita da Confindustria e Srm (Studi ricerche per il mezzogiorno) parla di un’emergenza sociale troppo spesso ignorata da media e classe politica. La disoccupazione giovanile al Sud è cresciuta fino al tasso record del 51,9%. Partendo da questi dati è facile capire i numeri impressionanti registrati durante il maxi concorso in regione Campania.

Le difficoltà delle centinaia di migliaia di candidati sono aggravate da una macchina dei concorsi pubblici ormai obsoleta e inadeguata a gestire ogni anno un numero simile di persone. Il sistema non è neanche in grado di fornire un dato certo su quanti siano a tentare le prove, tanto che uno degli ultimi report risale al 2007, quando Poste Italiane commissionò uno studio che ha fissato a 2,2 milioni il numero di candidati annuali. In Italia il miraggio del posto fisso resiste, anche tra i liberi professionisti in cerca di stabilità. Un esempio importante è fornito dall’acquisizione dei 24 crediti formativi universitari nelle “discipline antropo-psico-pedagogiche e metodologie e tecnologie didattiche”, requisito d’accesso previsto per la prossima selezione pubblica per i docenti della scuola secondaria. Il dato interessante è l’identikit degli iscritti fornito dall’Università di Parma: molti di loro hanno un’età superiore ai cinquanta anni, mentre tanti altri sono liberi professionisti come architetti, ingegneri e avvocati, categorie impoverite dalla precarizzazione del lavoro e dagli strascichi della crisi economica che si trascina dal 2008.

C’è una parola che viene ripetuta ossessivamente dalla stampa nazionale quando si parla di concorsi pubblici: odissea. Di epico, però, in tutto questo si trova ben poco e di eroico c’è solo la grande pazienza e caparbietà di tutti coloro che decidono di seguire gli iter previsti dallo Stato per entrare a fare parte dei suoi organici. A tutto questo si aggiunge un sistema che per ogni concorso crea un business parallelo di corsi specializzati, siti e libri per test preparatori e questionari. Attualmente il secondo libro più venduto in Italia su Amazon è uno dei manuali di preparazione al concorso per 1052 vigilanti bandito ad agosto dal Mibact. Sono tre le aziende leader nel settore della manualistica delle selezioni pubbliche e nell’organizzazione di corsi per la preparazione ai test – Simone s.r.l., Edises s.r.l., Alpha test s.p.a. – e insieme nel 2017 hanno fatturato 33,50 milioni di euro. Solo la Alpha test s.p.a. – la più grande tra le tre, nata nel 1988 da una fortunata intuizione dei fratelli Renato e Alberto Sironi – detiene il 90% del mercato, ha all’attivo 600 titoli e 400mila copie vendute nel solo 2018.

Nessun settore è esente da questo business: sanità, scuola, pubblica amministrazione, notariato, magistratura. Per organizzare un corso di preparazione a un concorso non serve alcuna certificazione, con il risultato che la maggior parte delle offerte fanno riferimento a s.r.l. che attraggono i clienti con un’offerta di professionisti laureati o esperti del settore che promettono consigli e tecniche utili per avere successo nelle prove. Non sono corsi di formazione o di aggiornamento professionale e non prevedono alcun attestato, motivo per cui non sono tenuti a rispettare le regole sul rilascio del decreto di riconoscimento da parte del Miur o della Regione. La loro attendibilità è data dal passaparola e dal numero di concorsisti che studia con loro e passa con successo la prova, mentre i prezzi variano a seconda dei servizi offerti, della difficoltà della prova concorsuale e dei mesi o anni di studio richiesti. Nonostante ci sia un mercato aperto e un’ampia offerta formativa, le cifre restano comunque alte: vanno, ad esempio, dai 720 euro per seguire un corso online per prepararsi al concorso per funzionari all’Agenzia delle Entrate fino ai 3.050 euro per un anno di corso di preparazione al concorso notarile.

Per comprendere meglio l’entità del giro d’affari generato da questo sistema, basta pensare che solo per la preparazione al concorso in Magistratura sono cinque le scuole di specializzazione più importanti in Italia, e insieme fatturano tra i 5 e i 6 milioni di euro ogni anno. Nel caso specifico, la media di chi ha successo è di un concorsista su dieci, ma questo non impedisce a molti candidati di ripresentarsi più volte, anche fino ai 35-40 anni, con un guadagno assicurato per le scuole. Anche se i servizi offerti dalle scuole di preparazione possono essere utili, il numero sempre più grande di partecipanti ai concorsi ha creato la convinzione che queste siano ormai fondamentali per superarli, richiedendo maggiori sacrifici in termini economici e di tempo a persone che hanno già studiato per anni, tra lauree e specializzazioni.

La certezza dell’assunzione non esiste più neanche per chi ha superato le selezioni con successo, a causa di sempre più numerosi ricorsi e bandi difettosi: solo tra il 2012 e il 2017 i Tar regionali e il Consiglio di Stato si sono dovuti pronunciare su 10mila ricorsi in materia. Il risultato è che sono sempre di più i professionisti che su internet promettono ai concorsisti la possibilità di ottenere il posto di lavoro intentando cause e vincendo i ricorsi. Spesso basta un cavillo estrapolato dai regolamenti o dai bandi per portare a sentenze che cancellano interi concorsi e i relativi posti di lavoro, nomine, assegnazioni di incarichi e sedi professionali.

Pochi politici hanno avuto  il coraggio di dire che a causa dell’enorme debito pubblico, pur in carenza di organico, gli Enti sono costretti a centellinare le risorse. Se questo concetto fosse ribadito più apertamente, forse i concorsi non si trasformerebbero in trappole che alimentano illusioni e frustrazioni, generando casi limite come quello degli 87 mila che hanno superato le selezioni pubbliche, ma non sono mai stati assunti e rischiano di non esserlo più a causa dello scadere delle graduatorie.

La sfiducia dei concorsisti, giovani e non, non è mai stata così alta, ma la scelta che rimane è tra la disoccupazione – o peggio l’inattività – e un lavoro precario. Oltre al posto pubblico, l’unica alternativa rimasta per una vita dignitosa e una stabilità economica è trasferirsi all’estero: come ha rilevato l’Istat in un report del dicembre 2018, negli ultimi cinque anni 244mila giovani italiani hanno lasciato il Paese e il 64% di loro ha un titolo di studio medio alto.

Lo scrittore Carlo Levi, tornato nel 1967 nei luoghi descritti nel suo romanzo Cristo si è fermato a Eboli, citò pubblicamente una considerazione fatta dal Presidente del Consiglio Francesco Nitti nel 1919 a seguito di un’inchiesta sul mondo dei braccianti: “La scelta è tra la giustizia e la fortuna. Chi sceglie la giustizia diventa brigante, chi sceglie la fortuna diventa emigrante”. Con le dovute differenze storiche, si può dire che nel mondo del lavoro italiano non sia cambiato quasi nulla.

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