In Cina la paura ha creato uno Stato di polizia. L’Italia sarà la prossima. - THE VISION

Telecamere ovunque che osservano i cittadini; un’intelligenza artificiale capace di associare ai volti le loro identità; poliziotti che grazie alle tecnologie installate nei loro occhiali da sole sono in grado di identificare i passanti in tempo reale e riconoscerli in quanto “indesiderabili”. Non siamo nel mondo distopico del celebre 1984 di George Orwell, ma nella regione autonoma dello Xinjiang, in Cina, che dal 2015 è stata trasformata dal governo autoritario di Xi Jinping in un laboratorio di repressione coadiuvato dai mezzi tecnologici più avanzati e dagli strumenti di propaganda più antichi.

Lo Xinjiang è una regione di grande importanza strategica per il commercio cinese e ha una popolazione di più di 21 milioni persone, in maggioranza Uiguri turcofoni e di religione islamica. È proprio contro questa popolazione che il governo cinese ha deciso di utilizzare l’intelligenza artificiale: gli Uiguri sono infatti malvisti proprio per via della questione etnica, e con le loro richieste di autonomia hanno causato negli scorsi anni diversi problemi a Pechino, come l’attentato suicida in Piazza Tienanmen del 2013.  Dopo l’attacco, il governo ha avuto buon gioco nel presentare gli Uiguri come criminali da tenere sotto controllo e da separare dal resto della popolazione, anche sul piano burocratico. Un atteggiamento che, se nei metodi impiega un sistema di intelligenza artificiale molto più raffinato delle famose ruspe, negli intenti non può che farci pensare ad alcuni dei passi mossi dal nostro ministro dell’Interno, Matteo Salvini, da quando è al governo. In comune c’è un tipo di retorica che mira a stigmatizzare la “cattiveria” delle minoranze, prendendo spunto da singoli eventi di cronaca che si prestano alla narrazione, come è stata la morte di Desirée in Italia oppure il già citato attentato in Piazza Tienanmen.

Il Rivoltoso Sconosciuto che fermò i carri armati dell’esercito durante la protesta di Piazza Tienanmen a Pechino, 1989

In Cina questo tipo di politica si è spinto fino alla creazione di un vero e proprio Stato di polizia che spia senza sosta e con mezzi estremamente sofisticati la vita dei cittadini. Oltre alla pervasiva presenza di telecamere, questi ultimi sono pressoché obbligati di fatto a istallare sul proprio smartphone un’app spyware, che registra le chiamate e le attività in rete, compresi quindi i messaggi su piattaforme web e social; inoltre sono diffusissimi i check-point, dove gli abitanti si vedono sequestrare i propri telefonini dalla polizia per “accertamenti di sicurezza”. Un eventuale esito negativo può causare la deportazione dei soggetti considerati “non fidati” in campi di rieducazione in cui, secondo Human Rights Watch, al momento sarebbero detenute 800mila persone.

Attivisti pro-democrazia marciano per ricordare il 25° anniversario del massacro di Piazza Tienanmen, Hong Kong, 2014

La situazione dello Xinjiang ha spinto Nikki Hayley, l’ambasciatrice statunitense all’Onu, a parlare esplicitamente di uno scenario “orwelliano”. Le autorità cinesi, da parte loro, si difendono dando la colpa all’inaffidabilità degli Uiguri e giurano che questa sorveglianza asfissiante è necessaria per preservare la “sicurezza nazionale”. Insomma, tutto è concesso pur di mantenere la razza cinese al sicuro dalla minoranza islamica – alla quale, fra l’altro, non è permesso costruire nuove moschee. Una simile retorica anti-islamica in Italia, e in generale nel mondo occidentale, si ascolta già da tempo e risulta anche vincente alle urne. Se i cinesi usano l’intelligenza artificiale per sorvegliare gli Uiguri – che secondo il regime sarebbero più propensi, in quanto musulmani, a commettere reati – perché un Salvini, una Le Pen o un Trump non potrebbero proporre di fare lo stesso con i migranti? Non si tratta, purtroppo, solo di ipotesi, visto che secondo lEconomist i governi occidentali utilizzano già questo genere di tecnologie, soprattutto in funzione della lotta al terrorismo. Se da una parte nessuno si augura che attacchi come quelli del Bataclan si ripetano, dall’altra è necessario chiedersi se l’unica soluzione per evitarlo sia permettere allo Stato di tenere in ostaggio la privacy dei cittadini.

Nimrata “Nikki” Randhawa, coniugata Haley, è una politica statunitense rappresentante permanente alle Nazioni Unite dal 2017

Nel nome della sicurezza, del “prima i connazionali”, i brasiliani hanno scelto il reazionario di estrema destra Jair Bolsonaro, che ha apertamente dichiarato di preferire la dittatura alla democrazia. Allo stesso modo, gli americani hanno portato al governo Trump, il cui video di propaganda per le scorse elezioni di metà mandato dipingeva l’arrivo dei migranti sudamericani come un’invasione di delinquenti – coerente con la decisione della sua amministrazione di separare i figli dei migranti dalle loro famiglie, con danni gravissimi per i piccoli che arrivano a non riconoscere i loro genitori una volta ricongiunti. Il tutto, si capisce, nel nome della “sicurezza nazionale” ormai declinata secondo una dialettica sempre più xenofoba. Noi non siamo certo immuni: sempre più italiani, secondo i sondaggi, appoggiano Salvini, che continua a giustificare le misure anti-migranti dichiarando che sono propensi al crimine, e introduce nel suo Decreto Sicurezza limiti sempre più stringenti ai permessi di soggiorno, nonostante uno studio dell’Università Bocconi provi che i migranti che lo ricevono abbiano il 50% in meno di probabilità di commettere reati. Un chiaro segnale che uno Stato di polizia e di segregazione può riscuotere consenso anche in Italia. Cosa impedirà a questi politici, che basano il loro consenso sulla paura, di convincere un giorno i loro elettori a barattare la propria libertà con una sicurezza/insicurezza totale, modello Xinjiang?

Donald Trump partecipa alla cerimonia di benvenuto in Cina con il presidente cinese Xi Jinping, Pechino, 2017

Dopotutto, anche le democrazie occidentali sono da anni avvezze all’uso dell’intelligenza artificiale, come per esempio nel caso del riconoscimento facciale, già sdoganato nelle pratiche quotidiane da giganti come Apple. Tra coloro che usano questi strumenti per controllare e combattere i nemici figurano per esempio gli Stati Uniti che, nonostante le critiche mosse alla Cina, non si può dire abbiano la coscienza pulita. Lo dimostra, secondo Amnesty International, l’utilizzo massiccio dei droni in funzione anti-terrorismo in Pakistan, che ha portato alla morte di almeno 400 civili. Tra loro, per esempio, Mamana Bibi, una donna di 68 anni fatta a pezzi da un drone davanti alla nipotina per colpa di un “errore tecnico”. Neanche in materia di politica interna gli americani possono permettersi di dare grandi lezioni ai cinesi, vista l’eco ancora forte dello scandalo del 2013 nell’immaginario collettivo; grazie alle rivelazioni di Edward Snowden, ora sappiamo che l’Agenzia per la Sicurezza Nazionale statunitense (Nsa) spiava regolarmente istituzioni e privati cittadini dei Paesi alleati.

Edward Snowden, informatico e attivista statunitense

La diffidenza verso il diverso e il senso costante di insicurezza sono una cifra del nostro tempo. Lo illustra il report Being Black in the EU pubblicato dall’Agenzia Europea per i diritti fondamentali, secondo cui nei 12 Paesi europei interessati dallo studio circa un terzo delle persone di origine africana abbia subito almeno una violenza a sfondo razzista negli ultimi 5 anni. Questi sentimenti, alimentati regolarmente da chi ha interesse a controllare la popolazione e combinati con le tecnologie applicate alla “sicurezza nazionale”, potrebbero legittimare agli occhi dei cittadini una trasformazione dello Stato di diritto attuale in uno Stato di controllo in stile Grande Fratello, che tutto vede e tutto sente. Se certi metodi non stupiscono in Cina dove, dal 1949, il regime comunista continua a esercitare un capillare controllo sui mass media e praticare un lavaggio del cervello quotidiano alla sua popolazione (e anche giganti occidentali come Google hanno dovuto piegarsi), la continua messa in discussione dei principi di uguaglianza e libertà anche dai noi, non fa certo ben sperare per il futuro. Tra fake news, stupri e assassinii rilanciati solo quando commessi da migranti e sottaciuti quando commessi dagli italiani, non c’è da stupirsi nel vedere sempre più persone invocare a quei tempi in cui “si dormiva con le porte aperte” – dimentiche del fatto che, se avessi avuto la malaugurata abitudine di pensare con la tua testa, la porta avresti fatto meglio a chiuderla bene. Non c’è molta differenza fra queste affermazioni e quanto dicono i cinesi, entusiasti di essere protetti da uno Stato dove, se righi dritto, tutto non può che filare liscio.

Una Xinjiang globale è oggi un’eventualità non così astratta vista la nostalgia che si respira per regimi come quello di Franco in Spagna o di Mussolini in Italia. Regimi che, se davvero riuscissero a tornare, avrebbero degli strumenti ancora più pervasivi e potenti. Forse, per farsi passare certe nostalgie, basterebbe guardare al modello cinese e rendersi conto che il prezzo da pagare per questa “sicurezza” è il nostro pensiero critico, l’unica dote che ci rende diversi dagli animali.

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