L’anomalia Limonov

Nei giorni scorsi Eduard Limonov era in Italia per parlare di Zona Industriale, il suo ultimo libro. In molti aspettavano l’occasione di vedere lo scrittore russo che per anni non ha avuto il permesso di lasciare il proprio Paese. A Torino, dove il Salone del Libro aveva organizzato un’intervista pubblica, la Sala Gialla era al completo solo per lui. Limonov però ha sostenuto idee incompatibili con le categorie occidentali di Bene e Male. Chi si aspettava un incontro con un rispettabile signor scrittore ha dovuto presto ricredersi. Limonov non è una figura pacifica, è un antiborghese che ha in odio le società opulente. La sua indomita opposizione a Putin piace alle platee delle persone perbene, ma al tempo stesso le sue idee sono inconciliabili con il loro canone democratico. Limonov è un’anomalia. A Torino ci sono stati applausi, ma anche momenti di tensione, soprattutto tra gli organizzatori dell’incontro. L’intervistatore, Marino Sinibaldi, è stato il primo a non reggere la crudezza dell’intervistato e quando ha giudicato le risposte dello scrittore troppo oltraggiose lo ha interrotto, sentendosi in dovere di prenderne le distanze.

Lo scrittore russo ha vissuto una dozzina di vite, oggi ha settantacinque anni, ma il suo corpo è asciutto e allenato com’era nella fotografia di copertina della biografia di Carrère. Ogni giorno dedica una parte del suo tempo agli esercizi, pratica che ha iniziato da adolescente e che non ha mai interrotto, nemmeno durante la prigionia. Nel 2001 è stato arrestato e rinchiuso a Lefortovo, un carcere dove, nell’Unione Sovietica prima e nella Russia oggi, vengono mandati i più pericolosi nemici dello Stato. Non è un carcere comune, ma un’ex-fortezza del KGB situata nei dintorni di Mosca, la cui esatta ubicazione non è riportata su nessuna pianta della città.

Quando Limonov venne trascinato in carcere non gli fu permessa nessuna assistenza legale. Gli furono proibite le visite e nascosti i capi di accusa. Come tutti i detenuti di Lefortovo dovette sottostare alla dieta ipoproteica che il sistema carcerario usa per indebolire i suoi ospiti. Gli uomini che escono dall’isolamento di Lefortovo sono distrutti, ridotti a relitti psichici, ma non Limonov, che grazie alla sua autodisciplina è venuto fuori da quell’esperienza addirittura rafforzato. Ha affrontato il carcere imponendosi un rigido programma di lavoro: si è alzato ogni giorno alle cinque del mattino e quando gli è stato consentito l’accesso alla biblioteca ha preso in prestito, uno dopo l’altro, i saggi e i testi di storia. Li ha letti seduto al tavolo, con la schiena dritta, prendendo appunti su un quaderno. Il quaderno è stato l’unico favore che ha chiesto e le guardie glielo hanno concesso perché Limonov, ai loro occhi, era il detenuto modello. Non contestava l’autorità carceraria, rispondeva quando interpellato, teneva in ordine la sua cella. Aveva scelto di obbedire, senza essere servile.

La passeggiata quotidiana si svolgeva al mattino sul tetto della prigione, ma non era obbligatoria così d’inverno, quando all’alba era ancora buio e il freddo insopportabile, i detenuti preferivano rifiutarla, rimanendo nelle loro celle e rigirandosi nella branda. Limonov invece ha sempre preteso di fare la passeggiata a cui gli dava diritto il regolamento, anche quando la temperatura esterna scendeva a – 25°. Per tutta la permanenza a Lefortovo, non ha mai rinunciato a uscire sul tetto, dove per una mezz’ora correva avanti e indietro su uno scampolo di cemento, faceva flessioni, addominali e tirava pugni nell’aria gelida. Le guardie si seccavano di dover lasciare la guardiola riscaldata per quell’unico prigioniero, però ne erano anche impressionate, lo rispettavano e iniziarono a chiamarlo “il professore”.

Con il suo sistema Limonov è riuscito a mantenere il corpo reattivo e la mente lucida. In carcere ha scritto quattro libri, tra i quali uno strano e inclassificabile testo, il suo più bello: Il Libro dell’Acqua, risultato di un’antica promessa. Limonov, quando aveva imparato a nuotare aveva deciso che si sarebbe immerso in tutti i luoghi in cui sarebbe stato e così nel Libro dell’Acqua inserisce mari, fiumi, piscine, vasche e laghi, usandoli come pretesto narrativo per raccontare la sua vita. C’è la Costa Azzurra e le acque scure del fiume Kuban, la Senna, una fontana di New York in cui ha fatto il bagno ubriaco, la spiaggia di Ostia poco prima che vi venisse assassinato Pasolini, i torrenti gelidi dell’Altaj, il Mar Nero durante la guerra in Transinistria, la grande vasca del Jardin du Luxembourg in cui meditava di catturare le carpe tanto era affamato. Ovunque sia stato umanamente possibile immergersi Limonov non si è sottratto.

Il suo arresto è avvenuto all’alba nella sperduta regione dell’Altaj, una terra dell’Asia Centrale dagli immensi spazi e scarsamente popolata. Gli uomini dell’FSB, con passamontagna e mitra, hanno circondano le yurte dove Limonov e i suoi si erano accampati per la notte. Ne uscirono a braccia alzate sette individui; Limonov ne era il capo, così gli venne concesso di vestirsi per primo. Gli altri che erano con lui erano nazbol, ovvero membri del partito fondato dallo scrittore, che lui aveva condotto in quella terra isolata ed essenziale per sottoporli ad addestramento paramilitare. I nazbol erano dei ragazzi che per età avrebbero potuto essere suoi figli e che da mesi vivevano su quelle montagne dove avevano imparato a cacciare, sparare, pescare nei torrenti, riconoscere le erbe commestibili e sopravvivere in condizione estreme. Da teppisti di città erano diventati ascetici, forti, la loro pelle si era fatta scura, abbronzata dal sole. Sembravano monaci guerrieri. Gli agenti dell’FSB tenevano i mitra puntati sui sette perché si vestissero velocemente e non pensassero a fare sciocchezze, poi vennero tutti fatti salire su un mezzo militare che li portò alla caserma più vicina, a otto ore di distanza da lì. Durante il viaggio il soldato che sorvegliava Limonov ne approfittò per sussurrargli che adorava i suoi libri e che era fiero di arrestarlo. All’epoca Limonov era ancora semisconosciuto in Occidente, ma non nelle terre russofone e slave, dove godeva di un rispetto trasversale.

Quando l’Unione Sovietica aveva smesso di esistere, i vecchi territori dell’impero erano stati smembrati e la ricchezza collettiva era stata privatizzata in modo frettoloso e diseguale. Era cambiato tutto velocemente, la gente aveva creduto eterno il grigiore sovietico e ora lo vedeva sparire in pochi mesi, le vie e le città abbandonavano i nomi degli eroi del proletariato, Leningrado tornava al vecchio nome zarista di San Pietroburgo mentre Karl Marx era cancellato dai programmi di studio. Nella capitale aprivano negozi e ristoranti come non si erano mai visti, gli anni Novanta furono il momento in cui si impose il modello sociale del “nuovo russo”, con i suoi rotoli di banconote e lo stuolo di ragazze appariscenti al seguito, il tipico cafone che ostenta il denaro e maltratta camerieri e sottoposti per dare esibizione di potere sociale. Mentre gli oligarchi si spartivano le ricchezze dello stato, centocinquanta milioni di fessi cadevano in miseria. L’aspettativa di vita del maschio russo passava dai sessantacinque anni del 1987 ai cinquantotto del 1993. Tutti avevano iniziato a vendere tutto, i vecchi in miseria portavano le loro quattro cose alla stazione della metropolitana per offrirle ai passanti, magari svendendo a un turista la medaglia al valore che avevano meritato per aver combattuto contro i nazisti durante la seconda guerra mondiale. Le vecchie coordinate morali erano diventate inattuali, persino ridicole, la dittatura del proletariato lasciava il posto al libero mercato. È stato questo il momento in cui Limonov ha fondato il suo partito, mosso dall’odio verso tutto ciò che la nuova Russia stava diventando. Limonov attaccò Eltsin, così come oggi attacca Putin. La sua era una formazione agguerrita e antiborghese che chiamò Partito Nazionalbolscevico. Usò il denaro dei diritti d’autore dei suoi libri per aprire la prima base, un bunker insalubre vicino alla fermata Frunzenskaja, più simile a un club underground che alla sede di un partito. I nazbol pensarono a sgomberare i detriti, riparare le perdite e riverniciare le pareti. Arrivavano a decine, attratti da quello che accadeva nel bunker e dalle idee di Limonov. I manifesti del partito avevano una grafica acida, chiassosa e violenta, uno dei volantini di reclutamento recitava: “Sei giovane, non ti piace vivere in questo paese di merda. Non vuoi diventare un anonimo compagno Popov, né un figlio di puttana che pensa soltanto al denaro. Sei uno spirito ribelle. I tuoi eroi sono Jim Morrison, Lenin, Mishima, Baader. Ecco: sei giù un nazbol.”

Il partito prendeva di mira gli oligarchi e i nuovi russi, i nazbol sentivano di rappresentare l’unica controcultura possibile nel loro Paese: andavano a srotolare striscioni sul frontone di edifici difficili da scalare e facevano irruzione alle cerimonie ufficiali lanciando frutta marcia sulle giacche del governatore. Le loro incursioni erano considerate dall’opinione pubblica al contempo immature, disturbanti e coraggiose, ma in Russia con il potere pubblico non si scherza, così arrivarono gli arresti, le pene detentive e infine, dopo anni di lotta, la definitiva messa al bando del partito.

Limonov è una figura non redenta. Per un occidentale la sua vita e le sue idee possono apparire feroci. Durante l’intervista a Torino, Limonov ha ripreso più volte il traduttore invitandolo a non ammorbidire il senso delle proprie parole e a limitarsi a una traduzione fedele. In molti si aspettavano che lo scrittore russo dicesse quello che le persone perbene si aspettano di sentirsi dire da un dissidente, e cioè che Putin è un dittatore onnipotente e che l’occupazione della Crimea è un atto criminale. Ma avevano fatto male i conti. Limonov non desidera affatto una Russia democratica e disarmata. Naturalmente Limonov è anti-Putin, ma non per la sua politica espansionista, quanto per il sistema economico che la sua presidenza garantisce. Per Limonov la piaga della Russia sono gli oligarchi che hanno approfittato dei disordini degli anni Novanta per incamerare gli impianti industriali e i giacimenti di materie prime del suo Paese. Se lui fosse al posto di Putin ha dichiarato che li farebbe fucilare tutti per alto tradimento: non esattamente il tipo di soluzione pacifica per cui i democratici di casa nostra sono disposti a firmare appelli di solidarietà. Limonov non somiglia per niente all’idea che l’Occidente ha degli oppositori russi. Limonov non è Solženicyn, ma un barbaro che da giovane immaginava cose così: “Sogno un’insurrezione violenta. Non sarò mai un altro Nabokov, non andrò a caccia di farfalle per i prati su gambe senilmente nude, pelose e anglofone. Semmai guadagnerò un milione e mi comprerò le armi per organizzare un colpo di stato in un Paese qualsiasi.” Come scrisse in Diario di un fallito.

Proteste da parte di sostenitori Nazbol

Limonov non è diventato un altro Nabokov. Le sue sue idee si sono definite nel tempo, ma l’energia primitiva che lo animava non è si è dissipata, è incredibilmente ancora tutta lì, anche adesso che ha settantacinque anni. Considera l’Europa senza sangue e crede che la forza sia un motore della Storia. Chi sospetta che Limonov sia un provocatore, dovrebbe tenere conto che lui pensa davvero quello che dice, non esagera le sue posizioni per scandalizzare, non è Lars von Trier che gioca a citare Albert Speer e il nazismo contando di scatenare le solite prevedibili indignazioni alle conferenza stampa di Cannes. Quando Limonov invoca il plotone d’esecuzione per i traditori lo dice per davvero, se mai riuscisse a prendere il potere è esattamente quello che farebbe. La violenza, subita ed esercitata, è parte della sua biografia.

Forse è uno degli imperdonabili, il pantheon minore in cui siedono Céline, Hamsun, Brasillach e gli altri reietti della letteratura. Come loro ha scritto e fatto cose che per molti sono spaventose. Nei libri di Limonov ci sono frammenti di verità e su tutti il suo punto di vista, quello di un guerriero mongolo a cavallo che, da un’altura, osserva la città prima del saccheggio.

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