La mia vita in un campo rifugiati palestinese - THE VISION

Non saprei da dove iniziare, esattamente. Non è mai semplice andare a ritroso tra i ricordi, cercando un momento più allegro o leggero dal quale far prendere le mosse al proprio racconto. Quello che so è che sono nato e cresciuto in un posto chiamato Dheisheh, un campo profughi di Betlemme, Palestina, e che fin da bambino mi hanno insegnato che l’immaginazione era il modo più semplice per fuggire alla realtà che mi circondava. Non ho capito cosa intendessero finché non sono cresciuto, e ho compreso che il mondo non finiva oltre i cancelli del campo.

Cos’è un campo profughi? E com’è la vita lì?

Non so come rispondere a queste domande. Non perché non sia in grado, ma perché ci sono troppe storie, legate al mio presente o al mio passato, con cui potrei farlo. Ricordo ad esempio la mia classe nella scuola dell’UNRWA [l’Agenzia ONU per i Rifugiati, n.d.R.]: avevo tredici anni e seguivo le lezioni insieme ad altri 45 studenti in una piccola stanza costruita in legno e zinco. D’inverno pioveva: mia madre mi copriva le calze con una busta di plastica, e con un’altra avvolgeva le scarpe, perché non si riempissero d’acqua. A volte, per non prendere freddo, passavo giornate intere cercando di tenere i piedi sollevati dal pavimento, che alla prima pioggia si allagava.

Quello che mi interessava veramente era starmene al caldo, non tanto ascoltare il professore. Anche se sarebbe stato comunque difficile farlo, visto il chiasso delle gocce che battevano sul tetto di zinco: il rumore era così forte da costringerci a urlare per riuscire a sentirci. A volte iniziavamo a cantare, battendo sulle seggiole di legno per provare a scaldarci. Alla fine, però, siamo riusciti a completare la nostra istruzione. Da quella classe sono usciti dottori, architetti, ingegneri, artisti e scrittori. Soltanto pochi di noi non hanno completato gli studi, o sono finiti uccisi durante gli attacchi notturni da parte dell’esercito israeliano al campo, ma questa è tutta un’altra storia.

Oggi, a 29 anni, sono ancora un rifugiato, vivo nello stesso campo e ancora non vedo alcuna soluzione politica alla mia situazione, ma all’epoca credevamo che l’istruzione fosse l’arma migliore attraverso cui proteggere noi e il nostro futuro e per costruire ponti culturali grazie ai quali diffondere le nostre storie. Per questo abbiamo creato associazioni culturali che avvicinassero i ragazzi del campo alla danza, alla letteratura, alla musica e allo sport, quali strumenti per modificare l’immagine che avevano di se stessi, quella di rifugiati, vittime povere e stanche, incapaci di diventare ciò che avrebbero voluto essere. Volevamo mostrare loro che esisteva qualcosa per cui lottare.

Oggi oltre 15mila rifugiati vivono in un lembo di terra la cui estensione non supera il chilometro quadrato. Oltre il 60% della popolazione del campo è costituita da bambini e minori. Sebbene la vita qui sia difficile e limitante – non ci sono parchi, campi da calcio, o altri spazi aperti in cui giocare – siamo riusciti a lavorare su noi stessi, facendo in modo che la realtà circostante si modificasse a sua volta. Abbiamo rinforzato la nostra rete sociale, costruendo centri per la comunità, e ospitando molti stranieri, così che potessero sentire le nostre storie. Dheisheh è diventato un luogo rinomato per le arti, nonché una fonte di ideali politici e sociali.

Eppure l’esercito continua a invadere il nostro campo con una frequenza di quasi due volte alla settimana. Durante queste irruzioni, che di solito avvengono di notte, molti giovani uomini rimangono feriti, a volte uccisi; oltre 200 ragazzi tra i 18 e i 24 anni sono stati arrestati o colpiti da un arma da fuoco nel corso del 2017. Il 31 luglio, verso le quattro di notte, un soldato israeliano è entrato nella casa dei miei genitori, distruggendo vari oggetti e arrestando mio fratello, Anas Al-Saifi. Anas non è né un eroe, né un combattente. Non è un terrorista, né un negoziatore di pace. È un normale ventenne palestinese, nato e cresciuto a Dheihsheh.

Tutto è iniziato quando i soldati israeliani hanno cominciato ad arrestare alcuni dei migliori amici di Anas. Nonostante il dolore e la tristezza che ha provato perdendo una dopo l’altra le persone a lui care, non gli è mai passato per la testa che presto anche lui sarebbe stato trattenuto dall’esercito; non avrebbe mai pensato di poter finire sulla lista dei “ricercati” senza una motivazione precisa, soprattutto considerato che nei vari centri comuni del campo non ha mai partecipato ad alcuna attività politica, ma solo a quelle culturali e ricreative.

Poche notti prima del suo arresto mi ha detto: “Ho paura. Non voglio essere portato via”. Io ero sicuro che non sarebbe successo, semplicemente perché non ce n’era motivo. Ho cercato di tranquillizzarlo, ma ancora oggi ricordo lo sguardo che aveva quella sera, colmo di preoccupazione e di fragilità; l’ho guardato angosciarsi ogni sera, terrorizzato al punto da non riuscire a dormire, mentre attendeva il momento in cui sarebbe stato preso. Era solo, nella sua paura, con l’idea che qualsiasi piano futuro potesse essere cancellato da un momento all’altro e che i suoi sogni sarebbero stati annullati allo scattare dell’ora prestabilita.

Come hanno potuto etichettarlo e giudicarlo come un terrorista, un pericolo per la popolazione israeliana, senza poi saperci fornire alcuna accusa formale, delle motivazioni o delle informazioni? Prima dell’arresto, Anas era un volontario in un centro sociale di Dhiesheh, Layalc. Passava il suo tempo con altri coetanei partecipando ad attività culturali di vario tipo. È stato tramite questa associazione che gli si è presentata l’occasione di un viaggio in Francia, per prendere parte a dei programmi internazionali con altri ragazzi provenienti da tutto il mondo. Anas non era mai stato fuori dalla Palestina: per questo era estremamente emozionato e felice quando ha saputo che il suo nome era stato scelto per il viaggio. Non riusciva a stare fermo, continuava a saltare per la strada, raccontando a tutti cosa fosse successo. Ha iniziato a lavorare per mettere da parte un po’ di soldi. Mi faceva un sacco di domande sui luoghi storici della Francia, su come fossero la vita e il tempo lì.

L’emozione per il viaggio, però, aveva vita breve: presto tornava la preoccupazione per i suoi amici, e con essa, per il suo stesso futuro. Un giorno mi ha chiesto, “Dovrei prepararmi per il viaggio in Francia o per andare in prigione?” Non sapevo cosa rispondergli. Mi ha domandato se avrebbe potuto restare in Francia finché i suoi amici non avessero finito il periodo di interrogatori in prigione. Forse pensava che, in quanto fratello più grande, io fossi più potente e avessi molti contatti con cui aiutarlo. È difficile sopportare l’idea di non essere abbastanza forti per sostenere il proprio fratello minore, quando il tuo ruolo dovrebbe essere quello di proteggerlo. Provavo tristezza e vergogna, perché sapevo che non sarei stato in grado di evitare che gli accadesse qualcosa di brutto. Ma soprattutto, pur di farlo stare meglio, gli ho mentito. Mi ripeteva, ancora: “Non voglio essere arrestato, non ho fatto nulla.” E io gli rispondevo, quando non ero abbastanza forte: “Farai questo viaggio e non ti succederà nulla.”

Poche ore prima del suo volo per la Francia, e dopo tre mesi di attesa per il visto, le cose hanno preso una piega diversa: Anas è stato arrestato. Sono passati sei mesi da allora, ed è ancora in carcere. Sei mesi, e il sistema giudiziario israeliano ha già posticipato la data del processo quattro volte, senza alcuna ragione esplicita. Non possiamo fargli visita né chiamarlo.

Il governo israeliano non sembra avere grande rispetto dei diritti umani più basilari. Cercando di proteggere lo Stato e la tranquillità della sua popolazione si è dimenticato della sicurezza di tutta un generazione di giovani palestinesi. Ostacolandone il futuro e minandone le energie, l’ha riempita di dubbi e debolezze.

Dopo sei mesi di silenzio, finalmente è arrivato un messaggio da Anas, in cui scrive: “Sto bene, ci incontreremo presto.”

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