Qualche giorno fa, scorrendo LinkedIn, ormai trasformatosi nel social degli imprenditori di se stessi, sono finito per strane ragioni su un’invettiva che paragonava Marco Mengoni a Paul Newman. A essere messe a confronto non erano doti canore, attoriali o più genericamente una sorta di bellezza oggettiva, ma gli outfit delle due personalità. Reo di aver indossato una gonna di pelle durante la serata del Festival di Sanremo di cui è stato co-conduttore, Mengoni veniva affiancato a una foto di Newman in giacca e cravatta e inserito nel più ampio calderone del dibattito su ciò che manca agli uomini di oggi, definiti al contempo più insicuri ma più pieni di sé, più sentimentali e meno virili.
Al di fuori della minuscola bolla in cui vivo sui social, quello sulla mancanza degli “uomini di una volta”, è un discorso che mi capita di sentire spesso. Più eleganti, dignitosi, coraggiosi, saldi, integri, meritevoli, educati, decorosi, sembrano gli unici uomini degni di essere definiti tali, quasi fossero la panacea per ogni problema o i fossili di un periodo in cui non solo non esistevano i problemi, ma era difficile anche immaginarseli – quando invece era tutt’altro che così. Probabilmente, se la messa in discussione dei modelli della mascolinità egemone fosse avvenuta più tardi, avrebbero avuto anche il tempo di salvarci da tutto – persino da loro stessi. Non a caso le nuove forme che assume oggi l’essere uomini sono spesso elevate di volta in volta a esempio o causa della deriva dei nostri giorni e del parallelo “degrado morale”.
Certo, illudermi anche nella vita offline che le nostre echo chamber online corrispondano nella maniera più verosimile al Paese reale – cosa che, tra l’altro, ci viene sempre più spontaneo fare – sarebbe una sfida interessante da affrontare senza l’uso di allucinogeni, ma la verità è che al di là di ogni facile ironia, prima che con il mondo esterno la questione dei “veri uomini” mi ha richiesto di confrontarmi con me stesso. Pur essendo sempre stato lontano, volente o nolente, dall’ideale machista, è innegabile che io stesso abbia spesso attribuito un determinato valore all’ideale di virilità che ancora oggi, nonostante le molteplici letture, incontri e consapevolezze, resta difficile da scardinare del tutto, seppur sia stato notevolmente ridotto. Eppure, parlare di “uomini di una volta” – espressione con cui ci si riferisce chiaramente allo stereotipo del maschio della seconda metà del Novecento – mi sembra sempre più utilizzare un’espressione perlopiù vuota e priva di un significato specifico. Pur mantenendo alcuni tratti comuni attraverso i secoli, la mascolinità è stata infatti tante cose, spesso molto diverse tra loro, a volte contraddittorie, a seconda del periodo storico di riferimento. Moda, costumi, pose, valori sono cambiati assumendo anche tratti che oggi, guardando indietro, ci sembrano meno maschili di come siamo abituati a considerarli.
La nascita della mascolinità moderna, secondo alcuni studiosi, si colloca nello stesso periodo dell’ascesa della società borghese, cioè tra la seconda metà del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. Fu un processo lento, e molti dei più antichi stereotipi aristocratici impiegarono molto tempo a morire, ma alla fine il corpo – definito in gran parte attraverso l’allusione ai principi greci di armonia, proporzione e controllo – prevalse sui suoi ornamenti, fino ad allora in larga parte utilizzati per trasmettere i codici della mascolinità. Basti pensare a uno degli elementi oggi forse più legati al femminile: i tacchi. Le testimonianze storiche, infatti, pur facendoli risalire a un primo uso legato al teatro, e quindi ai costumi, degli antichi greci e romani, raccontano di come nei secoli questo tipo di calzature si fosse imposto in prima istanza come un oggetto maschile. Furono i cavalieri persiani a utilizzarli per uno scopo pratico, cioè quello di poterli inserire nelle staffe dei cavalli per mantenere una posizione più salda durante gli scontri a distanza con arco e frecce, prima che la loro scomodità li rese l’accessorio preferito dall’aristocrazia. Più erano alti, più erano scomodi, più si era ricchi, perché ci si poteva permettere di non fare nulla, di non dover soccombere alla praticità del lavoro. Una simile evoluzione spettò anche alle parrucche: anticamente utilizzate per scopi teatrali o per proteggere la testa dal rischio di scottature divennero di moda quando Luigi XIV, spaventato dalla perdita di capelli dovuta alla sifilide, commissionò a quarantotto artigiani di realizzargliene una. La moda venne poi copiata dalla corte francese e infine dalle corti di tutta europa. Nel Regno Unito, per esempio, l’abitudine venne introdotta da Re Carlo II, tornato sul trono dopo un periodo in esilio in Francia.
Sono proprio le trasformazioni della moda e del nostro modo di vestire, l’espressione più immediata di come decidiamo di abitare il mondo, a permettere di guardare alla mascolinità come a un costrutto culturale. E pur con tutte le sue evoluzioni e nonostante la varietà di epoche e contesti, almeno nelle società occidentali un elemento è rimasto il perno attorno a cui costruire se stessi in quanto maschi: la virilità. Fu però dalla fine dell’Ottocento, come ricostruisce lo storico Sandro Bellassai, che il virilismo si incarnò pienamente nel concetto di mascolinità, diventando un pilastro retorico e un collante delle culture nazionaliste, imperialiste e autoritarie. Un certo tipo fisso di mascolinità – quello che oggi leghiamo appunto agli “uomini di una volta” – divenne così uno strumento per rafforzare il dominio di chi deteneva il potere. Si potrebbe contestare che quei modi di essere uomo – e per contraltare donna – fossero modi arcaici, che la società si è evoluta e come ogni evoluzione l’ha fatto solo per il meglio – e un’altra serie abbastanza corposa di luoghi comuni e false giustificazioni. Gli elementi attraverso cui oggi codifichiamo la mascolinità sono diversi, eppure ci sembrano al contempo contenere in sé una sorta di imperativo, un ordine “biologico” per cui ciò che è è ciò che deve essere ed è ciò che è sempre stato, anche se la Storia, oltre questi esempi, dimostra diversamente. L’idea che la mascolinità non sia qualcosa di biologicamente determinato ma di socialmente costruito, mutevole nel tempo e nello spazio, non va considerata come una perdita o un attacco, ma come l’occasione per mettere in discussione quel sistema-mondo che, oltre alle “identità non maschili” come donne e minoranze, opprime, con un peso diverso, anche gli stessi uomini.
Mentre parliamo sempre più spesso, e a ragion veduta, della necessità di raggiungere la parità di genere, la sensazione – almeno personale – è che nei discorsi pubblici mainstream le trasformazioni dei concetti di femminilità e mascolinità non abbiano ancora la stessa rilevanza. Pochi, spero, si sognerebbero di dire con disinvoltura in televisione o a un tavolo che oggi mancano “le donne di una volta”, con cui intendono senza troppi giri di parole donne che non ne sfidano il potere, pur magari pensandolo nel proprio privato. Se cioè la conquista di una maggiore indipendenza femminile – seppur, purtroppo, non ancora consolidata – viene giustamente considerata un traguardo, i cambiamenti che coinvolgono il concetto di “mascolinità egemone” sono ancora percepiti come una perdita. Questo nonostante le due questioni siano indissolubilmente legate tra loro, a volte anche attraverso un rapporto di causa-effetto. Credo sia un atteggiamento comprensibile considerato che la cultura patriarcale non è una prerogativa degli uomini e che la società che vi è stata costruita attorno si fonda proprio su quegli assunti oggi messi in discussione, e che quindi incontrano più resistenze. In questo modo, mentre si fa strada la richiesta che gli uomini debbano cambiare, al contempo a chi cambia davvero spesso non è lasciato spazio in un contesto in cui l’idea di “vero uomo” o “uomo d’una volta” determina ancora chi considerare debole o forte, meritevole o meno.
L’autrice femminista bell hooks lo racconta partendo dalla propria esperienza nel saggio La volontà di cambiare. “Tra i venti e i trent’anni andavo in terapia di coppia e il mio compagno da più di dieci anni raccontava che gli chiedevo di parlare dei suoi sentimenti, ma quando lo faceva andavo fuori di testa. Aveva ragione. Era difficile per me accettare il fatto che non volevo sentir parlare dei suoi sentimenti quando erano dolorosi o negativi, non volevo che la mia immagine dell’uomo forte fosse messa alla prova dalla scoperta delle sue debolezze e vulnerabilità”. Oltre a non trovare spazio nei circoli femministi dell’epoca, dove gli uomini che volevano cambiare venivano spesso etichettati come narcisisti o insicuri, perché l’espressione dei loro sentimenti era intesa come un bisogno di attenzione, un tentativo di rubare la scena alle donne, scrive bell hooks, “molte donne non vogliono sentirli parlare del loro dolore in amore perché sembra un’accusa nei loro confronti, dato che secondo le norme sessiste amare è il nostro compito, sia nel ruolo di madri, sia di amanti o amiche”.
La volontà di cambiare usciva per la prima volta nel 2004, un tempo in cui, in particolar modo in Italia, i dibattiti sulla mascolinità egemone erano ancora discorsi sotterranei, di nicchia. Per intenderci: cercando su Google il termine “mascolinità tossica” dalla data di pubblicazione del saggio ai due anni successivi, i risultati italiani sono appena una decina scarsa. Eppure, oggi che l’espressione è diventata d’uso comune – forse fin troppo –, in una società in cui il 69% degli adolescenti pensa che le ragazze siano più predisposte a piangere dei ragazzi, il 64% che siano maggiormente in grado di esprimere le proprie emozioni e il 50% di prendersi cura in modo più attento delle persone, ragionare sugli stereotipi di genere resta quanto mai necessario. Ciò, nonostante possa sembrare un esercizio ormai fine se stesso, anche per cogliere l’interesse delle nuove generazioni che, pur conservando idee che non esiteremmo a definire anacronistiche o “retaggi del passato” e che invece costituiscono solidamente la base delle opinioni odierne, dimostrano un positivo aumento della sensibilità verso queste tematiche.
La natura mutevole e mai cristallizzata della mascolinità, che l’ha portata a cambiare, di volta in volta, in base alla lente storica attraverso cui la si guarda, è certamente ciò che in prima istanza consente di minare l’assioma di “vero uomo” ma, al contempo, è anche la leva attraverso cui creare un nuovo alfabeto. La realizzazione di una società più equa passa anche per il dovere di tutti e tutte di azzerare la propria relazione con il maschile così come lo si è conosciuto, così come è stato insegnato, così lo si è subìto, dandogli nuove forme e attributi. Possiamo Immaginarlo, reimmaginarlo, risemantizzarlo. Senza trovare per forza una forma alternativa e definita in cui far convergere un nuovo ideale, ma spogliando quello attuale delle prerogative, dei privilegi ma anche degli obblighi che gli attribuiamo. Servono la facoltà e lo spazio per rendere la mascolinità vivibile – al suo interno, al suo fianco – per tutti e tutte. Non come “una volta”, ma come ne abbiamo bisogno oggi.