Brumotti usa un problema reale come la criminalità per creare il suo show legalitario

C’è una frase di Leonardo Sciascia a proposito de Il giorno della civetta che dice “In Italia non si può scherzare né coi santi né coi fanti”, una citazione che reinterpreta il detto popolare “Scherza coi fanti ma lascia stare i santi”. Nella riformulazione di Sciascia emerge a mio avviso un elemento molto caratteristico dell’Italia, un Paese di tradizione cattolica in cui si discute sulla riapertura delle chiese durante una pandemia, certo, ma soprattutto un Paese che ha dentro di sé un’indole militare irrefrenabile che ci rende quasi tutti, nelle occasioni più disparate e inaspettate, un popolo di fanti. Durante l’emergenza sanitaria portata dal coronavirus, questa natura poliziesca, da maestri pronti a stanare i bambini che hanno rubato le merendine, ha toccato il picco, almeno da quando ho memoria; una tendenza esplicita al volersi accaparrare un distintivo da guardia meritevole che per certi versi mi ha fatto comprendere meglio alcuni passi della nostra storia del Novecento, quella degli anni Venti in particolare. Tra donne di una certa età che mi hanno urlato addosso insulti vari per il fatto che stessi correndo attorno al mio palazzo in piena regolarità, gente dal balcone che urlava “A casa”, ossessioni mediatiche per runner, furbetti e ora addirittura l’iniziativa degli assistenti civici, il coronavirus ha dato enorme spazio a uno dei più classici sentimenti italici, la voglia di essere tutti ogni tanto un po’ sbirri. E non parlo della più estrema e bizzarra venerazione per le forze dell’ordine che spinge i civili fino al punto di appendersi calendari dei carabinieri in ufficio – passione che può essere spiegata in vari modi e che non credo andrebbe giudicata – ma di quella voglia impellente di trovarsi almeno per un giorno con un fischietto in bocca che ci consenta di dire questo si può e questo non si può.

La televisione conosce bene questo impulso così radicato e lo cavalca in tanti modi, per esempio con un campione di bike trial che da qualche anno ha trovato la sua ragione d’essere nel farsi lanciare pietre mentre perlustra con la sua bici le peggiori piazze di spaccio italiane. Vittorio Brumotti, il giustiziere armato di “A bombazza” e mountain bike che puntualmente viene insultato (e occasionalmente picchiato) durante i suoi servizi per Striscia la notizia mentre effettua queste sue ronde improvvisate –  a metà tra un video girato con la GoPro e la musica dubstep sotto e una rivisitazione scadente di qualche episodio di Gomorra – è stato di nuovo vittima di un’aggressione. Nemmeno la pandemia ha fermato l’operato di questo personaggio televisivo che ormai da alcuni di anni ha deciso di convertire il suo talento sportivo in una missione legalitaria, una lotta allo spaccio della droga combattuta su due ruote e sul palinsesto di Canale Cinque.

Vittorio Brumotti

Mentre si trovava nella zona di Porta Venezia, il biker è stato colpito con un legno da uno spacciatore e la vicenda, ovviamente, non è passata inosservata: Striscia ha mandato in onda il servizio nonostante le immagini violente, Brumotti ha condiviso diversi messaggi in cui dava notizie rispetto alla sua salute, ha dichiarato di essersi sentito faccia a faccia con la ‘ndrangheta e, come di consueto, non sono mancati gli appoggi da parte della politica. C’è addirittura chi lo propone per una candidatura all’Ambrogino d’oro, ipotesi verso cui il ciclista anti-droga ha prontamente messo le mani avanti dicendo che i professionisti da premiare sono altri. Perché non c’è niente di più eroico del dire “Non sono un eroe”, e Brumotti, così come tutta la televisione che ruota attorno a questo voyeurismo della giustizia, lo sa bene. Ma uno potrebbe dire, che c’è di male? In fondo sta solo rischiando la pelle per denunciare una realtà sbagliata, pericolosa, pezzi difettosi di società. Per comprendere bene quanto queste rappresentazioni siano nocive e divisive, infatti, è necessario capire su cosa si basa questo tipo di narrazione mediatica della criminalità, quella dei teatrini creati apposta per sfamare il nostro bisogno atavico di alzare il dito e godere attraverso lo spettacolo proibito del fuorilegge. Una messa in scena in cui l’obiettivo finale non è tanto risolvere un problema ma piuttosto renderlo fruibile, impacchettato per un format in modo tale da essere servito come una pillola di giustizialismo generalista con tanto di risate finte in sottofondo.

Si tratta di un vero e proprio turismo della criminalità e del disagio sociale senza alcun tipo di progettualità, se non quella di registrare qualche minuto di servizio in cui magari, se siamo fortunati, ci scappa anche l’atto violento a dimostrare quanto siano bestiali questi cattivi. Una tecnica pseudo-giornalistica che non è estranea allo stile rodato e ben riconoscibile di una trasmissione come Striscia la notizia che – tra una raccolta di meme presi da chat di over sessantenni, qualche sprazzo di Paperissima, un paio di innocui servizi sulla cucina e il classico sfottò delle celebrità con suoni demenziali in sottofondo – propina allo spettatore medio della trasmissione, che ha come sottotitolo “La voce della resilienza”, una serie di piccoli spettacoli proibiti ma goduriosi. Rajae Bezzaz, l’inviata libica con un passato da gieffina e un presente da giustiziera dell’illegalità nelle palazzine popolari milanesi, usa la stessa tecnica Brumotti. Forte della sua posizione “Sono araba anche io ma sono un’araba buona, regolare”, usa il suo microfono e il suo bomber rosso per stanare gli immigrati che fanno i furbi con gli affitti, i rom che occupano le case popolari, tutta quella fetta di extracomunitari che, visti da questo punto di osservazione intriso di preconcetti – senza considerare che in molti casi, ci si trova in condizioni talmente disperate da pensare di non avere altra scelta che occupare una casa – sembrano solo una banda di saccheggiatori e invasori, una “Mamma li turchi!” con i suoni slapstick. Stessa cosa per i servizi di Jimmy Ghione che invece di addentrarsi nell’universo caotico e pericoloso degli immigrati e dei rom prepotenti fa un giro tra le prostitute che lavorano sulla via Aurelia, denunciando la sconvolgente realtà del sesso a pagamento anche durante la pandemia, come se improvvisamente un giro illegale chiudesse i battenti per igienizzare i bordi della strada.

Rajae Bezzaz

Questo modo di rappresentare la criminalità, i suoi luoghi e i suoi protagonisti, però, non è una sfida né uno schiaffo in faccia ai diretti interessati, dal momento che, specialmente per la questione dello spaccio, si tratta di giri talmente complessi ed enormi che non può certo essere un uomo in bicicletta a mettere fine al problema. Un uomo in bicicletta che gira per le piazze di spaccio di Napoli, Roma, Palermo e Milano urlando “Ragazzi la droga fa male!”, incarnando la stessa logica superficiale secondo cui un tossicodipendente è così perché se l’è cercata, e se non smette di fare uso di stupefacenti è perché non gli va. Una retorica da moralisti che sembra ignorare completamente tutto ciò che genera queste paludi esistenziali che portano un essere umano a scegliere una strada come quella del vagabondaggio o, come per i bersagli preferiti di Brumotti, a quella dello spaccio, della criminalità di quartiere.

Girare per lo Zen di Palermo sbandierando la propria morale da boyscout, che banalizza questioni gigantesche e ataviche come lo stato di totale povertà e abbandono in cui versano interi quartieri delle nostre città – da Nord a Sud – con l’inevitabile infiltrazione capillare di mafie di ogni tipo e la disoccupazione a livelli senza pari, non è un’azione eroica ma un safari nella terra proibita dei cattivi. Una retorica che alimenta ogni giorno il pensiero retrogrado e fuorviante secondo cui chi ruba lo fa perché è cattivo, senza considerazione delle problematiche spesso vissute da chi è nato in un contesto di disagio e di povertà tali da far sì che questo tipo di condotta di vita sia considerata l’unica possibile. Lo stesso modo di pensare di chi si stupisce nell’apprendere che siano i siciliani o i campani stessi, molto spesso, a considerare mafia e camorra come una cosa positiva, un aiuto: ed è esattamente su questo principio che si fondano queste realtà parallele allo Stato, affondando le radici dove questo è assente. Solo la mancata conoscenza del contesto sociale in cui origina e si sviluppa la criminalità può portare a stupirsi o scandalizzarsi – anziché rammaricarsi e interrogarsi – se un gruppo di ragazzi distrugge un pronto soccorso dopo che un carabiniere ha ucciso uno di loro, né se un cantante neomelodico viene invitato in tv e dice frasi come “Nella vita c’è il dolce e c’è l’amaro” riferendosi a Falcone e Borsellino, perché purtroppo, sono spesso proprio questi gli effetti manifesti del disagio e dell’emarginazione di chi nasce e vive dall’altra parte della barricata; e costruire il proprio show su questa differenza sociale, fatta di disuguaglianza e miseria, non è certo un atto di coraggio.

Le conseguenze di una messa in scena quotidiana di questo tipo sono subdole e pericolosamente allettanti, dal momento che impiantano una dialettica di bene e male che non lascia spazio, come sempre, alla possibilità che la responsabilità sia anche nostra che guardiamo comodi l’altro mondo, quello dei cattivi, che non ci appartiene e da cui ci sentiamo immuni o comunque ben lontani. Io sono migliore di uno spacciatore ventenne di San Basilio o di qualsiasi altra realtà popolare italiana perché io ho scelto di non spacciare, e se qualcuno fa luce con una torcia in questo pozzo di miseria il massimo che provo è ribrezzo; non mi viene in mente che magari la mia posizione di privilegio derivi anche dal fatto che non sono nato in quel luogo e non ho idea di cosa significhi crescere in un contesto di criminalità normalizzata.

Non è molto diverso dal meccanismo perverso che si instaura nella mente di chi, da politico, crede di poter citofonare a casa di un ragazzo chiedendogli se spaccia, portando con sé telecamere e pubblico pronto a sgamare l’ennesimo bricconcello che infesta i nostri quartieri di gente perbene. Un politico che, guarda caso, condivide i video di Brumotti celebrandone l’operato – ma non è il solo – e rafforzando ancora di più questa mentalità che relega a ruolo di nemico pubblico da esporre alla gogna mediatica chiunque si trovi dall’altro lato della linea della giustizia. Gli attacchi a Vittorio Brumotti non sono di certo legittimi né condivisibili, ma per chi come me – e come chiunque altro – possa vedere queste immagini dal di fuori, questo personaggio si trova in una posizione di privilegio tale da mettere evidentemente in luce il vero punto della questione. Allo stesso tempo, però, quel desiderio viscerale e primitivo di sentirsi poliziotti per un giorno, sentire il fremito del potere arbitrario nei confronti di chi ci disturba e di chi intacca la nostra legge non può essere materia per l’intrattenimento popolare. La televisione ha una responsabilità nei confronti del suo pubblico: raccontare e spiegare la cause del male e delle situazioni peggiori del nostro Paese è un dovere, renderle una parodia da guardie e ladri no.

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