Il Brasile è sull’orlo del fascismo. Un monito per l’Italia.

Da quando la stampa internazionale si è accorta della crescente popolarità che uno strano personaggio sudamericano andava acquisendo col passare dei mesi, il mondo intero ha potuto scoprire con curiosità, sorriso e spesso disappunto la figura di Jair “Messias” Bolsonaro, candidato dell’estrema destra alle elezioni presidenziali del Brasile. Un uomo che, in patria, aveva sempre mantenuto intorno a sé un alone di folclore e surrealismo per via delle sue uscite teatrali, delle sue proposte retrograde e della sua linea politica misogina, omofoba e razzista. Nessun brasiliano, fino a qualche anno fa, avrebbe minimamente creduto alla candidatura presidenziale di un deputato che, nella sua trentennale carriera parlamentare, ha fatto dei toni estremi e dell’infinita provocazione il marchio di fabbrica. Dal 1989 a oggi, è riuscito a far approvare due soli disegni di legge che portano la sua firma, mentre è salito agli onori delle cronache per aver augurato la morte al figlio, se l’avesse scoperto omosessuale, per aver sentenziato di avere la coscienza a posto sul passato schiavista del Paese – causato, a suo dire, dagli stessi capi tribù africani che consegnavano le persone ai colonizzatori portoghesi – o per aver incitato la folla di un suo comizio a prendere a fucilate gli elettori di sinistra. Ma lunedì scorso, al termine della prima tornata elettorale, quella che forse è la più estrema incarnazione dell’ultradestra contemporanea, si è presentata forte del 46% dei consensi, con un distacco di quasi 20 punti percentuali rispetto al candidato di sinistra Fernando Haddad, del Partito dei Lavoratori, fondato e guidato da Lula prima della sua recente e tendenziosa incarcerazione. Quella che in altri tempi e contesti sarebbe sembrata fantascienza, oggi si è trasformata in una questione reale, legata alla sopravvivenza dello Stato di diritto e dei valori antifascisti. E non riguarda solo il gigante sudamericano, ma potenzialmente in tutto il mondo.

Jair Bolsonaro

Proprio l’antifascismo, infatti, è la questione che torna a imporsi con maggiore urgenza di fronte al successo di un candidato che vanta come unica costante il trinomio “Dio, Patria, Famiglia”, caro alla tradizione fascista che va dal Ventennio italiano alle Tigri di Arkan, e su cui Bolsonaro articola la sua linea politica. Che si tratti di dare carta bianca alla polizia militare per “uccidere impunemente quanti più banditi possibili,” (conscio del fatto che nessun cittadino bianco, benestante e di buona estrazione sarà incluso in questa categoria), o di sostenere la famiglia tradizionale (come quando ammise di preferire che il figlio si ammazzasse in un incidente d’auto piuttosto che presentargli il fidanzato), o ancora di rendere omaggio alle forze armate che ardentemente lo appoggiano (emblematica, in questo senso, la sua ammirazione verso la Dittatura dei Gorillas, colpevole a suo dire di “aver torturato, ma non ucciso“),  le sue posizioni risultano sempre riconducibili allo stesso filone di pensiero e alla cultura della violenza. Se a ciò si aggiunge il supporto fornito alla campagna di Bolsonaro da Steve Bannon, ex consigliere di Trump noto per le sue simpatie verso i suprematisti bianchi americani, oggi intento ad avvicinare e organizzare l’Alt-right di tutto il mondo, ecco che gli echi del fascismo sembrano investire non solo il Brasile, ma una dimensione globale la cui portata, inedita dal secolo scorso, diventa sempre più urgente arrestare e soffocare.

La parabola di Bolsonaro sarà un episodio che farà scuola negli anni a venire. Com’è stato possibile, nel giro di pochi mesi, passare dal ridere di un fanatico di estrema destra e dei suoi seguaci, al sollecitare una mobilitazione di massa perché questi non arrivino a controllare il Paese? Quanto è successo chiama in causa diversi protagonisti e responsabili, ma può essere essenzialmente ricondotto a due elementi.

Il primo ha a che vedere con l’enorme polarizzazione iniziata all’alba delle elezioni presidenziali del 2014. Per la quarta tornata di fila, la maggioranza dei brasiliani aveva creduto nel progetto politico riformista iniziato nel 2003 da Luiz Inàcio Lula da Silva e portato avanti, allora, dalla sua delfina Dilma Roussef. La vittoria sul candidato di destra, tuttavia, era arrivata con un margine strettissimo e a fronte di un Parlamento che, rinnovato, presentava una composizione ben più conservatrice rispetto agli anni precedenti. Mentre nel Paese cresceva il malcontento – in particolare tra gli elettori di destra – alimentato dalla grave crisi economica, tra i banchi dei politici conservatori si mettevano in atto manovre e colpi di mano per disfarsi di una presidente scomoda. Così, a meno di un anno e mezzo dal suo insediamento, Dilma veniva destituita, messa in stato d’accusa per aver truccato i bilanci pubblici, nonostante le manovre che le venivano imputate rappresentino la prassi in molte amministrazioni mondiali e non avessero di certo i profili di gravità per giustificare un impeachment. Già allora la società brasiliana si presentava spaccata: le piazze venivano riempite a momenti alterni dagli accusatori, in gran parte elettori di destra, bianchi e benestanti, e da coloro che invece supportavano la presidente e denunciavano quello che veniva comunemente definito un golpe parlamentare, principalmente lavoratori e membri delle fasce povere. Nella cornice del mandato di Michel Temer, vicepresidente conservatore subentrato a Dilma e autore di disastrose riforme fortemente anti-popolari, questa divisione non ha fatto che crescere, con il risultato che difendere le istanze dei lavoratori o anche solo vestire una maglietta rossa bastava a essere bollato come petista, ovvero sostenitore del Pt, il partito di Lula, e subire minacce o persino aggressioni.

L’ex Presidente del Brasile Luis Inacio Lula da Silva, fondatore del Partito dei Lavoratori

Il secondo fattore, è a sua volta legato all’ingerenza di un potere giudiziario altamente di parte, che si è inserito in modo sempre più invasivo nella vita politica del Paese. Quella che veniva un tempo salutata come la “Mani pulite brasiliana” – così è stata più volte definita l’inchiesta Lava-Jato – si è rivelata presto uno strumento il cui scopo principale era indebolire la leadership di sinistra legata al Pt, con un atteggiamento sorprendentemente compiacente verso i politici di destra che risultavano coinvolti in casi di corruzione di gran lunga più gravi e inchiodanti. Il giudice Sergio Moro, volto-simbolo dell’operazione che non ha mai nascosto i suoi legami con la classe dirigente conservatrice, si è imbarcato in una vera e propria battaglia personale con l’ex presidente Lula. Il carismatico leader del Pt, che vantava una popolarità ancora altissima e che tutti i sondaggi davano per vincitore in caso di partecipazione alle presidenziali, veniva indagato con tenacia impressionante e raffigurato a capo di un imponente schema di corruzione costruito negli anni per garantire a sé e al proprio partito il controllo del Brasile. Mentre non emergeva nessuna prova dell’esistenza di questo sistema, l’accusa andava via via sfumando nel nulla, ma la controversa condanna per un crimine minore (aver accettato una mazzetta per l’acquisto di un appartamento) forniva il pretesto per incarcerare Lula e mettere fine al suo progetto di candidatura. Una decisione criticata da importanti giuristi internazionali, e persino dall’Onu, sulla base delle modalità con cui è stato condotto il processo e costruita l’accusa, ma che è bastata a eliminare politicamente chi più di tutti rappresentava il sogno di uno sviluppo democratico e progressista, nonché a diffondere una comune disillusione nei confronti dei partiti e delle istituzioni tradizionali.

Il giudice federale Sergio Moro

È in questo scenario di “controrivoluzione” e sfiducia nelle principali formazioni del passato che si inserisce lo spaventoso successo di Bolsonaro. Un personaggio che riunisce diversi cliché già visti in personalità affini che, dagli Stati Uniti alle Filippine, stanno inondando di odio il pianeta. Il culto cieco della famiglia tradizionale, a discapito delle differenze, l’esaltazione della violenza e delle armi, la crociata verso lo spettro del comunismo e il disprezzo per i diritti umani conquistati con fatica nel corso dell’ultimo secolo. Sono tutte idee che Bolsonaro non solo condivide, ma che esaspera a livelli mai sperimentati in precedenza. Sul piano espressivo, la linea dell’ex militare fa della forma la sua essenza, e del contenuto un’ingombrante zavorra di cui disfarsi. Alla prova dei fatti, portato a esprimersi su temi tecnici o anche solo concreti, Bolsomito, come lo apostrofano i suoi estasiati sostenitori, si mostra superficiale. Non c’è argomento su cui riesca a esprimersi senza tirare in ballo la religione e criticare il Pt, non c’è proposta che riesca a esporre seguendo la tradizionale linea logica fatta di premessa, sviluppo e conclusione e senza cadere nella scontata ridondanza iper-religiosa e anti-comunista che lo contraddistingue. Tutti elementi che prevedibilmente ritornano nel suo programma ufficiale (una presentazione in PowerPoint che si direbbe fatta da uno studente svogliato più che da un candidato alla presidenza) e nei discorsi dei suoi seguaci più accaniti, che tutto sanno del loro mito, a eccezione di come intenda nei fatti realizzare il suo insano e confuso progetto.

D’altra parte, se è difficile comprendere come Bolsonaro voglia trasformare il Paese – seppure si intraveda una fonte d’ispirazione piuttosto chiara – il suo progetto economico sembra più delineato. Anche qui, Bolsonaro si rivela in linea con i dettami della lunga storia dei regimi autoritari di vocazione fascista, proponendosi come candidato anti-sistema ma impegnandosi, in maniera molto meno chiassosa, nella difesa dei grandi capitali e dei loro rappresentanti. Il contrasto al Movimento dos Trabalhadores Sem-Terra, che da anni reclama l’attuazione di una riforma agraria e la ridistribuzione delle terre non coltivate, va incontro alle richieste dei potenti latifondisti le cui mani grondano del sangue di centinaia di sindacalisti e attivisti. Il progetto di abbassare ulteriormente le tutele dei lavoratori e di abolire la tredicesima (subito ritrattato e per ora scomparso dall’agenda) sarebbe un regalo nemmeno troppo velato ai datori di lavoro, con il fine ultimo di indebolire la classe lavoratrice. Altre riforme accessorie ipotizzate dai consulenti economici del candidato, poi, prevedono una campagna di privatizzazione delle maggiori imprese statali, in particolare l’azienda petrolifera Petrobras, un taglio sostanziale delle spese pubbliche con l’abolizione di interi Ministeri e una flat-tax con aliquota unica del 2,81% su qualsiasi trasferimento bancario. C’è poco da sorprendersi, dunque, se all’alba della vittoria di Bolsonaro l’indice della borsa brasiliana ha subito un’impennata di 6 punti percentuali. L’importante, si direbbe, è fingersi il paladino dei più deboli. Ma siamo davvero sicuri che i più deboli abbocchino?

Nell’era delle campagne via social, Bolsonaro diffonde la stragrande maggioranza dei propri contenuti su questi canali ed è proprio qui che il 60% dei suoi elettori si informa. Se il suo trionfo al primo turno ci conferma l’importanza del dato percepito più di quello reale nell’era della post-verità, è proprio la composizione dei voti a screditare, almeno in Brasile, l’idea di distacco tra sinistra e ceti popolari, e a evidenziare i caratteri di lotta di classe che questa sfida elettorale va assumendo. Dati alla mano, Bolsonaro trionfa infatti tra i ceti abbienti e a maggioranza bianca, collocati in particolare nel Sud e Sud-Est del Paese, mentre viene surclassato dal candidato di sinistra Fernando Haddad in tutti gli stati del Nord-Est proletario e rurale –fatta  eccezione per il Cearà, patria del candidato di centro-sinistra Ciro Gomes che, con il 41% dei consensi, supera Haddad e relega Bolsonaro al terzo posto con un misero 22%.

Come già emerso dall’elezione di Donald Trump, dunque, il bacino elettorale dell’ultradestra si ritrova anche in questo caso nella classe media maschile, bianca e spaventata dalle ricadute del neoliberismo sulla propria vita, che si affida all’uomo forte al comando, per il quale lascia trapelare un’attrazione quasi erotica, il compito di rimettere ordine nel mondo, preferibilmente a spese dei più deboli. E il caso brasiliano dimostra, in maniera esemplare, come le classi più povere e diseredate siano naturalmente ostili alla seduzione del fascismo in presenza di una sinistra coerente e che, con tutti i suoi difetti, riesce comunque a rappresentare un passato di conquiste e un futuro promettente ed equo allo stesso tempo. Si può misurare anche così la potenza che ha avuto sull’elettorato popolare lo slogan del Pt “Haddad è Lula”, adottato fin da quando gli esiti giudiziari hanno portato la candidatura di Lula (da cui Bolsonaro aveva sempre mantenuto un minimo di 15 punti di distacco nei sondaggi) a dover essere sostituita con quella dell’ex-sindaco di San Paolo.

Ora che anche in Brasile il fantasma dell’estrema destra incombe nella sua manifestazione forse più efferata, e rischia di portare anche questo Paese, per anni simbolo di progressismo e modello per la sinistra, nell’orbita dell’ “internazionale anti-liberale”, l’importanza della seconda tornata elettorale acquista un valore mai avuto finora. Il 28 ottobre, data del ballottaggio, per Haddad sarà fondamentale compattare attorno a sé gli elettori progressisti e liberali sparsi tra le formazioni minori, cercando al contempo di recuperare voti tra i moltissimi illusi da Bolsonaro e riuscendo così a vincere su coloro che, rapiti dalla sua retorica velenosa, vedono in lui la luce del cambiamento, invece di riconoscervi il baratro che riporterebbe il Brasile alle tristi memorie della dittatura militare. Il favorito, ben consapevole della sua scarsa preparazione e della debolezza del suo discorso, si è sempre mostrato ostile ai dibattiti elettorali, evitandoli sistematicamente soprattutto in seguito all’attentato di cui è stato vittima (che, pur lasciandolo debilitato, non gli ha impedito di prendere parte a un’intervista a lui solo dedicata sulla rete di un magnate che ne è sostenitore) e ritirandosi in una campagna quasi esclusivamente limitata al web.

Secondo molti analisti, il secondo turno obbligherà il candidato ad aprirsi al confronto, mostrando così, oltre alla propria incapacità, la linea politica profondamente anti-popolare che in realtà rappresenta, al punto da rendere possibile la rimonta e la possibile vittoria dell’avversario Haddad. Che la previsione si riveli corretta o meno, nel corso della prima tornata sono emersi segnali tutt’altro che rassicuranti. Immagini di elettori di Bolsonaro che votano il loro candidato con le pistole in pugno hanno invaso in massa i social network. A Rio de Janeiro, pochi mesi dopo il brutale omicidio di Marielle Franco, il candidato a lui legato che aveva frantumato la targa simbolica dedicata all’attivista e si era fatto fotografare sorridente accanto ai resti, è stato eletto in Parlamento con il numero più alto di voti. Il messaggio sembra chiaro: “Stiamo arrivando. E chiunque si opporrà al nostro ‘mito’ e al suo disegno autoritario farà una brutta fine.” Come sostiene il giornalista Fernando Horta: “Non è più in gioco la repubblica, il patto federativo, il disegno del partito A o B. È la sopravvivenza fisica del 50% dei brasiliani a essere in gioco. È il mantenimento delle libertà conquistate con la Rivoluzione Francese, nel lontano Secolo XVIII.” Parole che suonano profetiche e inquietanti allo stesso tempo, e che potranno forse contribuire, al risveglio da questa grande isteria di massa, a cambiare la storia di un popolo che, per mezzo della democrazia, scelse il ritorno alla dittatura.

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