Il caso Asia Argento non indebolirà la forza del MeToo

Se si sceglie di stare con le vittime, lo si fa senza condizioni, e sempre. Un articolo del New York Times ha reso noto che l’attore e musicista Jimmy Bennett ha accusato Asia Argento di aver abusato sessualmente di lui nel 2013, quando aveva diciassette anni. La vicenda è venuta fuori lo scorso anno: un mese dopo la denuncia da parte dell’attrice italiana degli abusi perpetrati dal noto produttore di Hollywood, Harvey Weinstein, Jimmy Bennett le ha avanzato una richiesta di risarcimento di 3,5 milioni di dollari. Il Nyt, attraverso alcuni documenti inviati da una mail criptata di un mittente non identificato, è venuto a conoscenza di un accordo di 380 mila dollari tra gli avvocati dell’Argento, diventata icona del movimento #Metoo, e quelli di Bennet.

Jimmy Bennett in uno scatto di produzione del video ‘Walk This Way’, 2011

L’attrice italiana ha smentito le accuse, dichiarando di essere stata ricattata e di aver deciso di pagare il giovane insieme al suo ex compagno Anthony Bourdain che, come si legge nel comunicato da lei rilasciato, “si impegnò personalmente ad aiutare Bennett economicamente, a condizione di non subire più intrusioni nella nostra vita.”

L’intera vicenda è ancora da chiarire e le autorità di Los Angeles hanno specificato che non è in corso alcuna indagine o procedimento, e che nei prossimi giorni verrano ascoltati Bennett e i suoi legali. Ma a prescindere da questo Asia Argento è stata – ed è ancora – la vittima di uno stupro da parte di Harvey Weinstein, il noto produttore di Hollywood finito nell’occhio del ciclone dopo che tredici donne, tra cui l’attrice, l’hanno accusato di violenza nell’inchiesta di Ronan Farrow, pubblicata lo scorso ottobre sul New Yorker.

Harvey Weinstein al Golden Globes After Party organizzato dal produttore in collaborazione con Netflix, 2015

Se si sceglie di stare con le vittime, si riconosce che Asia Argento è stata una vittima quanto potrebbe esserlo Jimmy Bennett – sempre che le sue accuse vengano provate – e che un abuso perpetrato non cancella un abuso subito. Ma soprattutto, non cancella un movimento che è nato ben prima dell’inchiesta del caso Weinstein e di cui Argento non è né leader né portavoce, tantomeno ideatrice, come invece sostiene chi non aspettava altro che un suo passo falso per mettere in croce #MeToo. Coloro che adesso chiedono la testa di Asia Argento sono gli stessi che negli scorsi mesi hanno criticato modi e metodi del dopo Weinstein, tra licenziamenti in tronco e processi mediatici via social. Oggi invece c’è addirittura chi, in maniera insopportabilmente subdola, cerca di mettere in relazione la vicenda Bennett-Argento con il suicidio di Anthony Bourdain.

L’hashtag #MeToo non è stato creato a Hollywood, ma è stato ideato nel 2007 da un’attivista per i diritti civili afroamericana, Tarana Burke, per raccogliere storie di molestie nelle comunità disagiate e povere degli Stati Uniti. Pochissimi giorni dopo l’uscita dell’inchiesta Weinstein, un gruppo di attiviste italiane lancia la campagna #quellavoltache. Negli stessi giorni, Alyssa Milano propone su Twitter di usare l’hashtag che ha dato il nome al movimento intero, invitando le persone a farsi avanti raccontando le molestie subite. Ci sono quindi persone singole alla base del movimento, ma non è un movimento ad personam. È un gruppo di vittime o, come si dice nel mondo anglosassone, survivor, sopravvissuti, che hanno deciso di raccontare vicende che magari si tenevano dentro da anni. La potenza del #MeToo sta nella creazione di un linguaggio condiviso, solidale, fatto di storie vere, di donne – e uomini – che raccontano la stessa esperienza con mille sfumature e scenari diversi.

Tarana Burke
Alyssa Milano

Creare una narrazione fatta da più voci che ne fanno una sola è da sempre l’obiettivo dei femminismi. È una pratica che va avanti dai gruppi di autocoscienza degli anni Sessanta e Settanta, e che oggi ha solamente cambiato mezzo: raccontare la propria storia non perché sia la più interessante o la più tragica tra tutte, non per attirare l’attenzione – accusa che molto spesso è stata lanciata alle esponenti del #MeToo – ma per sostenere anche le donne che hanno subito violenze simili, e che da sole non verrebbero ascoltate. L’hashtag non si rivolge al “tu” molestatore, non punta il dito contro qualcuno, ma dice “anche io”, e non solamente “io”. L’intento non è di stanare aggressori e colpevoli, ma è quello di creare una comunità di persone che si sentano ascoltate, protette e soprattutto credute.

Spesso si pensa erroneamente al #MeToo come a un gruppo elitario di attrici di Hollywood, a un circolo privato di ipocrisie e accuse infondate, senza tenere conto che il #MeToo non è Asia Argento o Rose McGowan, ma sono le milioni di testimonianze di violenze e molestie che sono emerse dopo Weinstein. Se identifichiamo la cultura delle molestie con il solo tappeto rosso degli Oscar, allora scegliamo di ignorare tutto quello che succede intorno a noi: sui mezzi di trasporto, per strada, sul luogo di lavoro. Hollywood non è la totalità del problema, né basta a riassumere la realtà. Come non basta la molestia di uno solo a fare di tutti gli uomini degli stupratori, non può bastare l’errore di un’esponente del #MeToo a cancellare la forza e l’efficacia dell’intero movimento. Natalia Aspesi, difendendo Asia Argento, ha detto che il #MeToo è moribondo. Niente di più falso.

Rose McGowan alla Women’s March, Detroit, 27 ottobre 2017

Forse qualcuno si aspettava che dopo Weinstein e Kevin Specey, la caccia alle streghe avrebbe colpito uno dopo l’altro i beniamini del pubblico. Ma il #MeToo non è mai mai voluto essere una caccia alle streghe o il tribunale del popolo. È stato ed è tuttora, invece, una rivoluzione culturale che ha portato migliaia di persone a raccontare le loro storie di molestie subite o a chiedersi se ci fosse qualcosa di sbagliato nel modo in cui vengono trattate le donne. Ha fatto nascere iniziative di supporto legale per le vittime come Time’s up. Ha spinto molte aziende e persino le istituzioni europee a rivedere i loro codici di condotta sulle molestie sul lavoro. Ha addirittura bloccato l’assegnazione del Nobel per la letteratura. Chi pensava che il movimento fosse un ingranaggio mosso da qualche burattinaio per distruggere o addirittura approfittarsi del maschio, probabilmente non sa cosa sia una molestia sessuale. Il #MeToo non è moribondo, ma vive e si alimenta ogni giorno nella lotta per la parità di genere.

Roman Polanski

Chi oggi si dimostra soddisfatto perché Asia Argento finalmente può essere accusata di stupro– e sono tanti, anche insospettabili, come il buongiornista Gramellini, subito pronto a titolare il proprio editoriale “Asia Weinstein”– e ha una scusa per denigrare il #MeToo, non solo si sta mostrando felice per una violenza sessuale – al momento del tutto ipotetica – ma ha anche un’idea della giustizia punitiva e vendicatrice. A chi si lamentava dei processi mediatici a Weinstein (accusato da 93 donne diverse), su cui ora pendono diversi capi d’imputazione per reati a sfondo sessuale, faccio notare che Asia Argento al momento non è indagata per le accuse di aver avuto rapporti sessuali con un minore. Se queste accuse si riveleranno fondate, sarà giusto e sacrosanto che paghi per la sua colpa, così come ogni altro molestatore. Ma questo non sposta di un passo l’operato del #MeToo.

Il movimento non si è costruito su Asia Argento o sulla storia di qualche altra attrice famosa, ma al contrario sono state le loro testimonianze a essere state accolte in un gruppo vasto e complesso, che non si può ridurre a una singola esperienza. Lo ha detto anche Tarana Burke, ideatrice dell’hashtag: “La gente userà le ultime notizie per provare a screditare il movimento – non lasciamo che accada. Questo è ciò di cui è fatto il movimento. Non è uno sport da guardare. È generato da persone.” E le persone, lo sappiamo, non sono mai del tutto bianche o del tutto nere. Non esistono i buoni e i cattivi come nei film prodotti da Weinstein, ma siamo tutti vittime di uno stesso sistema di potere.

Asia-Argento-The-Vision
Asia Argento

Proprio perché il #MeToo è fatto da persone, non possiamo aspettarci che il loro comportamento sia sempre impeccabile. Spesso la corsa al mostro non ha lasciato il tempo per riflessioni più profonde. Non tanto sulla colpevolezza – a quello ci pensa, per fortuna, il sistema giudiziario – ma sul modo in cui intendiamo relazioni, scambi, successi, fallimenti con l’altro sesso. Il caso di Asia Argento, di cui aspetteremo gli sviluppi e le eventuali conferme delle autorità, potrebbe essere l’occasione per riflettere su come violenza e morbosità possano trasmettersi e perpetrarsi dal carnefice alla vittima. Qualcosa mi dice che invece si risolverà nell’ennesimo pasticcio all’italiana, con urla da una parte e dall’altra che non lasciano spazio all’ascolto.

Se un domani si scoprisse che lo stesso Harvey Weinstein in passato è stato abusato, dovremmo dare scarso peso alla cosa solo perché lui ora è abusante? Non dovremmo credergli o dovremmo deriderlo? In fondo quel che traspare è che la società vuole solo le vittime perfette. Se sei vittima e sei nota per le tue numerose relazioni, allora non sei poi così vittima. Se sei vittima e sei un maschio, allora in fondo ti è piaciuto. Se sei vittima e non hai denunciato, allora in realtà non ti interessava poi così tanto. Di Santa Maria Goretti ce n’è già stata una, ed è stata sufficiente per ricamarci sopra il mito della perfetta donna abusata. Ma la realtà è molto più complessa di così, che ci piaccia o no.

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