Ansia e depressione sono la piaga degli studenti italiani. La colpa è lo stress da competizione.

Entrare in una sala studio alle dieci di sera è un’esperienza straniante: ci si aspetta di trovarla vuota, o al massimo popolata dagli ultimi studenti ritardatari; invece è probabile trovarsi di fronte file di teste chine, ragazze e ragazzi che si grattano la testa, si stropicciano gli occhi, ripetono a bassa voce ciò che stanno leggendo o prendono freneticamente appunti. Dalle loro espressioni sembra trasparire qualcosa di più della semplice ansia per gli esami. La cultura della competizione con cui sono stati cresciuti non ha fatto nascere in loro solo l’ambizione: disturbi psichici, stress e depressione sono alcuni degli effetti collaterali della pressione che ogni giorno li schiaccia insieme al peso di un futuro incerto. 

Non è solo una suggestione, ma sono i dati a confermarlo. Diverse ricerche rilevano la salute mentale instabile degli studenti universitari: il rapporto 2017 del Center for Collegiate Mental Health della University Park, in Pennsylvania, ha individuato i sintomi della depressione nel 20% degli universitari americani. Nel Regno Unito un sondaggio del 2015, promosso dalla National Union of Students, ha evidenziato che il 78% degli studenti afferma di aver sofferto di disturbi mentali durante la propria esperienza universitaria. In particolare l’87% dichiara di soffrire di stress, l’80% di sentirsi triste, il 77% di sentirsi senza forza o in preda all’ansia. Sono alte anche le percentuali di disturbi ancora più gravi: il 69% degli universitari si dice depresso, il 58% soffre di insonnia, così come più del 50% è affetto da irritabilità e repentini cambi di umore, mentre più del 40% sostiene di soffrire di attacchi di panico e di constatare anaffettività e perdita delle emozioni. Un’altra ricerca dell’azienda di tecnologie finanziarie IeDigital rileva che lo stress causato dall’esperienza universitaria influenza negativamente le relazioni interpersonali nel 35% dei casi, le amicizie nel 34%, e, paradossalmente, il buon esito degli esami nel 32%. Uno studente su tre rileva difficoltà quotidiane a causa dello studio. 

In Italia la situazione non è migliore: su otto milioni di ragazzi tra i 12 e i 25 anni, 800mila affermano di non essere soddisfatti della propria vita. I motivi sono diversi, ma tra i principali c’è sicuramente la pressione scolastica e la mancanza di prospettive per il futuro. Non è solo l’università a generare ansia negli studenti, ma è un problema che ha radici già nelle scuole medie e superiori. Secondo uno studio dell’Oms del 2016, fra gli undicenni solo il 26% delle femmine e il 17% dei maschi si dichiara contento di andare a scuola, registrando un dato molto inferiore rispetto alla media europea. Se si prendono in considerazione i quindicenni, la percentuale scende al 10% per le femmine e all’8% per i maschi. Secondo la medesima ricerca, lo stress colpisce il 51% degli adolescenti con punte del 72% nei quindicenni. Il malessere mentale va a influenzare anche le prestazioni scolastiche, che risultano ottime o eccellenti solo per il 39% degli studenti degli istituti superiori, anche in questo caso con un dato molto più basso della media europea. 

Se la pressione scolastica ha ripercussioni sempre più gravi nelle scuole dell’obbligo, particolarmente a rischio appare la salute mentale di chi sta svolgendo il dottorato, ovvero il più alto grado di istruzione. Uno studio belga pubblicato sulla rivista Research Policy rileva che, su un campione di 3600 dottorandi, più del 50% presenta almeno due sintomi della depressione – come insonnia e mancanza di energie – e il 30% ne presenta addirittura quattro fra stress, ansia, mancanza d’appetito e vari disturbi di tipo ossessivo-compulsivo. Secondo gli autori della ricerca, “Sintomi comuni sono il sentirsi costantemente sotto pressione, l’infelicità, la depressione, problemi del sonno dovuti alle preoccupazioni, l’incapacità di superare le difficoltà e di godersi le attività quotidiane”. Un’impressione generale di quanto la depressione sia diffusa fra i dottorandi la fornisce anche uno studio pubblicato su Nature Biotechnology dai ricercatori dell’Università del Kentucky: secondo la ricerca il 39% dei dottorandi statunitensi presenta uno stato moderato o grave di depressione, a differenza della percentuale ben più esigua – il 6% – del resto della popolazione.

Nei college americani il numero di studenti per cui è stato diagnosticato un disturbo depressivo è aumentato di oltre il 40% nell’arco di un quinquennio: se nel 2010 a essere depresso era il 6% del corpus studentesco, nel 2015 la stima sfiora il 10 %. La causa è da trovare nella pressione a cui sono sottoposti gli studenti di un sistema accademico ossessionato dall’ansia della performance. Lo studio non è più un momento di accrescimento personale, ma si è trasformato nel mezzo per ottenere un buon voto e il massimo punteggio alla laurea. D’altronde, è solo quel voto in centesimi ad apparire sui curriculum, e una lode può fare la differenza in sede di colloquio per un lavoro. Il voto è anche una discriminante per determinati bandi pubblici: per esempio, il bando per diventare navigator di pochi giorni fa ha reso noto che nella fase di selezione i candidati verranno scelti e inseriti in graduatoria innanzitutto prendendo in considerazione il voto di laurea.

La cultura della performance investe il sistema universitario in generale, dato che le stesse università sono classificate secondo parametri dalla dubbia attendibilità, in ranking che spesso si contraddicono tra loro. Pochi anni fa Matteo Renzi ha affermato che in Italia “Ci sono università di serie A e di serie B, è ridicolo negarlo”; accentuare le differenza significa mettere in conflitto fra loro gli atenei che si vedono costretti a raggiungere a tutti i costi obiettivi molto lontani da quelli che dovrebbero davvero interessare gli atenei. Primo fra tutti il più alto rendimento possibile dei propri studenti: l’ansia da prestazione ricade su questi ultimi, che si vedono inseriti in una logica di costante competizione dove lo studio viene visto solo in funzione lavorativa e perde il suo valore di realizzazione, condivisione e scambio di sapere. La competizione genera gravi effetti collaterali, come l’abuso delle smart drug, le cosiddette droghe dello studio che tengono alta l’attenzione e migliorano le performance. Modafinil, Adderall, Ritalin, Dexedrine sono nomi sempre più conosciuti fra gli studenti. Secondo il Global Drug Survey del 2018 il consumo di smart drug in Europa è passato dal 5% del 2015 al 14% del 2017, con punte del 23% in Regno Unito, del 24% in Olanda e del 18% in Irlanda, mentre negli Stati Uniti e in Canada i dati oscillano fra il 20% e il 30%. Secondo il Journal of American College Health queste droghe provocano una facile dipendenza, influiscono sull’umore e sulla salute mentale inducendo stati di nervosismo e sovraeccitazione, facilitano l’insonnia e l’insorgere di problemi cardiovascolari.

In Italia il problema della depressione fra gli studenti non è abbastanza monitorato, o almeno non vi è ancora un numero sufficiente di studi che metta in relazione lo stress dell’ambiente scolastico con il sopraggiungere di disturbi più gravi. Allo stesso modo non si fa attenzione all’abuso di smart drug, che si possono facilmente reperire online. Occorrerebbe innanzitutto affrontare i problemi del sistema scolastico italiano, mettendo un freno alla cultura performativa che viene insegnata nelle scuole, per poi raggiungere i livelli più gravi nelle università e nel mondo del lavoro. Fra le maggiori criticità del sistema dell’istruzione quella della salute mentale dei propri utenti appare come il grande assente di ogni discussione. Nel frattempo gli studenti si affaticano sui libri, immagazzinando nozioni al posto di rielaborare saperi, nella speranza che le loro prestazioni siano all’altezza di ciò che esigono le leggi del mercato. Gli sguardi degli studenti, che dovrebbero essere curiosi, riflettono invece il vuoto dell’ambiente in cui sono immersi, la paura di fallire che sfocia spesso nella depressione, economica e sociale, e nella perdita di vitalità che non risparmia nemmeno le uniche vere risorse di cui si dovrebbero preoccupare le università.

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