L'amnesia umanitaria dello Yemen - THE VISION

Sembra che l’animo umanitario delle potenze occidentali soffra di una certa miopia selettiva. Giustamente indignati a seguito del – per ora – presunto attacco chimico contro i civili di Douma, avvenuto il 7 aprile, Stati Uniti, Francia e Regno Unito si sono profusi in biasimi e condanne. È poi arrivata la decisione di un’iniziativa militare coordinata contro tre siti di ricerca, fabbricazione e stoccaggio di questo tipo di armamento, condotta il 14 aprile. Le motivazioni usate per giustificare l’operazione – in linea di principio giusta, per quanto dall’efficacia estremamente dubbia – trasudano preoccupazione per il benessere dei civili siriani, quegli stessi civili a cui si tenta di bloccare l’accesso quando approdano sulle coste europee o atterrano negli aeroporti statunitensi, come ricorda Mehdi Hasan in un articolo su The Intercept e come ha ribadito l’ultima proposta di legge sulle immigrazioni di Emmanuel Macron. Un affanno per le condizioni dei civili che non sembra spingersi oltre la Mezzaluna Fertile: in Yemen, quella che è partita come guerra civile a seguito del colpo di Stato compiuto dai ribelli sciiti Huthi nel gennaio del 2015 è presto degenerata, fino a prendere le forme di uno scontro per procura tra grandi potenze. Da una parte la coalizione guidata dai sauditi a supporto del presidente deposto Hadi; dall’altra gli insorti supportati da Teheran e dai gruppi armati fedeli all’ex presidente Ali Abdullah Saleh, assassinato nel 4 dicembre 2017 dagli stessi huthi, dopo aver deciso di rescindere l’alleanza. Un modello di conflitto ormai ben noto, se si pensa al già citato caso siriano, che non sembra però destare grande allarme in quello yemenita.

Ali Abdullah Saleh

Il che è piuttosto strano, visto che la situazione è stata definita “la peggiore crisi umanitaria nel mondo” dal segretario generale dell’Onu António Guterres, in un discorso pronunciato a Ginevra lo scorso 3 aprile. Ancora più strano se si considera che molti degli armamenti impiegati dalla coalizione saudita provengono da fabbricatori europei e statunitensi, in una violazione flagrante del trattato sul commercio delle armi, in vigore dal 24 dicembre 2014.

Dalla notte tra il 25 e il 26 marzo 2015, quando gli aerei della coalizione saudita hanno bombardato per la prima volta le postazioni degli Huthi, la crisi in Yemen ha portato all’uccisione di oltre 5900 civili, mentre sono almeno 9400 i feriti. Secondo i dati riportati da Amnesty International sarebbero circa 3 milioni gli sfollati a seguito dei combattimenti, e 22,2 milioni gli individui che necessitano di assistenza umanitaria; 17,8 milioni di yemeniti sono a rischio malnutrizione, mentre il virus del colera, dopo aver già infettato un milione di bambini nel corso del 2017, rischia di scatenare una nuova epidemia nelle prossime settimane, per la mancanza di accesso a risorse idriche e a misure di profilassi.

La maggioranza delle vittime civili sarebbero state causate, secondo l’Onu, dagli attacchi aerei della coalizione, che comprende oltre all’Arabia Saudita anche gli Emirati Arabi Uniti, il Qatar, il Kuwait, il Bahrein, l’Egitto, la Giordania, Marocco, Senegal e Sudan. Una relazione delle Nazioni Unite ha esaminato la condotta militare del blocco guidato dai sauditi e, prendendo in considerazione dieci attacchi aerei avvenuti nel corso del 2017 in cui sono morte 157 persone, ha rilevato che gli obiettivi comprendevano una barca di migranti, un motel, cinque strutture residenziali, un veicolo, e alcuni membri delle forze governative. Non sembra che i principi di proporzionalità e di precauzione del diritto internazionale umanitario abbiano influito molto sulla gestione delle operazioni aeree.

Un altro rapporto delle Nazioni Unite ottenuto invece dal Washington Post ha evidenziato come molti di questi bombardamenti siano stati resi possibili dalla fornitura di armamenti da parte degli Stati Uniti. Uno studio di Amnesty International del 2016 ha inoltre reso pubblico il ritrovamento dei resti di una bomba a grappolo di fabbricazione inglese, il cui uso è bandito nell’ambito di conflitti armati da un’apposita convenzione Onu, firmata dal Regno Unito nel 2008. Londra ha negato di averne fatto uso, ma il luogo di ritrovamento – che non è stato colpito nei precedenti conflitti sul suolo yemenita – e le condizioni dei resti suggeriscono il contrario. Il 6 gennaio 2016, i Sauditi hanno bombardato la città di Sana’a con altre bombe a grappolo, in quel caso di fabbricazione statunitense, uccidendo un ragazzo di sedici anni e ferendo altri sei civili. Altre submunizioni si sono sparse per le aree limitrofe, andando a colpire quattro quartieri residenziali.

Anche Emmanuel Macron, scandalizzato dall’attacco barbaro contro i civili di Douma, non sembra porsi molti problemi nel momento in cui deve approvare la vendita di armamenti ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Nel 2016 circa il 50% delle commissioni dell’industria bellica francese provenivano dal Medio Oriente, in particolare dalla monarchia saudita, i cui ordini valgono tra il 15 e il 20% dell’export nazionale in questo settore. Persino Paolo Gentiloni ha denunciato l’illegalità e la deriva disumana che sta prendendo la situazione siriana, dopo aver ribadito l’importanza per l’Italia del rispetto dei diritti umani nel suo discorso al Palazzo di Vetro lo scorso settembre. Ma tuttora neanche lui sembra troppo turbato dal fiorente commercio di armamenti con cui il nostro Paese, in violazione del diritto internazionale e della legge 185 del 1990, sta ricoprendo il Medio Oriente. Nemmeno dopo la denuncia penale depositata lo scorso 17 aprile da tre Ong – la Rete Italiana per il Disarmo, lo European Centre for Constitutional and Human Rights (Ecchr) e la yemenita Mwatana – contro la società Rmw Italia S.p.a. e l’Autorità Nazionale per le autorizzazioni all’esportazione di armamenti in relazione a un raid aereo dell’8 ottobre 2016, in cui è rimasta uccisa una famiglia di sei persone. Le tre Ong hanno preferito concentrarsi su un attacco specifico, sperando che la circoscrizione dell’azione legale possa portare, almeno questa volta, a risultati concreti. Lo scorso gennaio, invece, la Germania, la Norvegia e il Governo Vallone del Belgio hanno comunicato la sospensione della vendita di armi rispettivamente alle parti coinvolte nel conflitto yemenita, agli Emirati Arabi Uniti e al ministro della Difesa saudita.

Secondo alcuni la cooperazione con i sauditi sarebbe giustificata in relazione all’accordo sul nucleare stretto con l’Iran: un bello smacco per Riyadh, che si è cercato di placare, appunto, con il sostegno alle operazioni militari in Yemen. Forse, ora che Donald Trump sembra voler fare dietrofront anche su quest’intesa, lo spazio di opposizione alla dinastia saudita si allargherà. O forse si tratta di un’ipotesi troppo ottimistica, specie ora che il principe Mohammed bin Salman è riuscito ad ammaliare tanto la Casa Bianca quanto Londra e l’Eliseo, e che i sauditi possono contare su una rinnovata intesa con Israele. Dal 20 al 24 agosto, a Tokyo, si terrà la quarta conferenza degli Stati parte del Trattato sul commercio delle armi: vedremo, allora, se si riuscirà a intervenire sulla situazione yemenita. Che si giunga a una soluzione prima di quella data, però, è una pura illusione.

Nel frattempo gli attacchi proseguono: tra i più gravi e recenti, quello dello scorso 23 aprile che ha colpito un matrimonio a Sana’a e, secondo i bilanci più recenti, ucciso 88 persone. Il Paese, che oltre a essere coinvolto nello scontro tra blocco sciita e sunnita, è dilaniato dalle rivalità e dai conflitti tribali, si trova ormai da tre anni sull’orlo del collasso, mentre le principali potenze occidentali non solo sembrano poco interessate alla stabilizzazione della regione, ma al contrario ne alimentano la settarizzazione e attraverso il proprio supporto logistico si assicurano che la ricostruzione di un apparato statale diventi una prospettiva sempre più inverosimile. Viene quindi da chiedersi quanto ci sia di filantropico nella risposta all’attacco su Douma, quanto genuina sia la preoccupazione per il benessere dei civili. Civili che, secondo il diritto internazionale, si dovrebbe cercare in tutti i modi di mantenere al di fuori di uno spazio di manovra militare i cui contorni ormai sono sempre più evanescenti.

L’emergenza yemenita è un copione che si è ripetuto più volte e continua a ripetersi in molti altri luoghi, incontrando la stessa indifferenza da parte di una larga fetta della comunità internazionale. Forse, allora, nel caso siriano, ne andrebbe corretta leggermente la narrativa, evitando di citare i diritti umani come determinanti nella reazione occidentale, a meno che non si voglia creare una sorta di gerarchia delle morti civili, la cui incidenza, per definizione, è auspicabile raggiunga lo zero. Bisognerebbe citare obiettivi più “plausibili”, o quantomeno più sinceri: come la messa in sicurezza di un Paese instabile e la conservazione di un ordine internazionale in questo momento in subbuglio. O, ancora meglio, la volontà di dimostrare la propria forza a una Russia sempre più decisa a dettare le regole in Medio Oriente, e che in Yemen, purtroppo o per fortuna, non è ancora arrivata. Almeno, non in prima persona.

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