Come l’Africa è diventata la Cina della Cina

Lo scorso 2 ottobre, il Times of Zambia, il principale quotidiano del Paese, di proprietà statale, ha pubblicato in apertura un articolo in cinese mandarino. Secondo una portavoce del governo si tratta semplicemente di una strategia per conquistare il mercato cinese; il Presidente Edgar Lungu ha sottolineato l’indipendenza della sua nazione che, dice, non guarderà né a Est, né a Ovest, ma punterà al progresso insieme a chiunque vorrà sostenerlo. Eppure, la decisione di utilizzare la lingua cinese ha scatenato diverse polemiche, specialmente dal momento che in Zambia coesistono 70 lingue autoctone, sette delle quali ufficiali, che rischiano di scomparire in favore dell’inglese, con tutto ciò che ne consegue in termini di perdita di eredità culturale. Addirittura, parte della nuova generazione di giovani zambiani non padroneggia né la propria lingua madre, né quella degli ex coloni britannici, insegnata principalmente nelle scuole.

Il presidente dello Zambia Edgar Lungu

La scelta di pubblicare in mandarino è l’ennesimo segno del sempre più stringente legame tra la Cina e lo Zambia. Secondo Africa Confidential, l’emittente radio-televisiva di Stato è già sotto il totale controllo cinese, e a breve lo sarà anche Zesco, l’ente nazionale per l’energia elettrica. Pare che una sorte simile stia per toccare anche all’aeroporto di Lusaka. Sia il governo dello Zambia che Pechino hanno negato le indiscrezioni, ma è un dato oggettivo che, dall’elezione del presidente Lungu nel 2015, gli appalti conferiti ad aziende cinesi siano arrivati a superare gli 8 miliardi di dollari. Il timore diffuso, non solo in un Occidente nient’affatto disinteressato, è che il piano sia quello di spingere il Paese verso l’insolvenza, per poi acquisirne le risorse strategiche.

Non si tratta di un progetto che riguarda solo lo Zambia: Angola, Etiopia, Sudan, Kenya e Congo sono i Paesi che hanno contratto il debito maggiore con la Cina. In totale, secondo il China-Africa Research Initiative della John Hopkins University, il debito accumulato in Africa nei confronti della Cina dal 2000 al 2016 ammonta a 124 miliardi di dollari. Dall’inizio del millennio, il valore degli scambi commerciali tra l’Africa e Pechino è cresciuto del 20% ogni anno, fino ad arrivare a toccare i 300 miliardi di dollari nel 2015; gli investimenti sono addirittura cresciuti del 40% ogni 365 giorni. E si tratterebbe di stime al ribasso, almeno del 15%. Anche le industrie cinesi in Africa sarebbero sottostimate, e il numero reale sarebbe almeno 8 o 9 volte più grande rispetto alle 10mila censite dalla Camera di commercio cinese, al 90% di proprietà di privati.

Ndola, Zambia

Oggi Pechino è il più grande partner commerciale dell’Africa in assoluto, e per comprenderlo basta un dato: il valore della merce cinese scambiata ogni anno sul mercato globale è di circa 4 trilioni di dollari, di poco superiore a quella degli Stati Uniti. Eppure, nel 2015, l’ammontare degli scambi con l’Africa è stato di tre volte superiore rispetto a quello americano. Pechino è anche il più grande finanziatore di infrastrutture in Africa, più dell’Asian development bank, della Commissione europea, della Banca d’investimento europea, della Società finanziaria internazionale, della Banca mondiale e dei Paesi del G8 messi insieme.

Negli ultimi decenni, la Cina ha rovesciato una marea di soldi in Africa. In Kenya, in soli tre anni, ha costruito una ferrovia da oltre 3 miliardi di dollari, salutata dal presidente Uhuru Kenyatta come una svolta per il Paese. Peccato che si sia rivelata una pessima idea, sia sul piano economico che ambientale: cento milioni di dollari di perdita e danni ai Parchi nazionali di Tsavo e Nairobi, con un conseguente calo delle entrate legate al turismo. Nel 2017 è stata inaugurata la prima ferrovia internazionale elettrica del continente africano, che ricopre un percorso di oltre 700 chilometri ed è costata più di 4 miliardi di dollari. Collega la capitale etiope Addis-Abeba con la Repubblica di Gibuti, un Paese piccolo ma estremamente strategico in quanto unisce il Sud dell’Asia con il Canale di Suez. Qui la Cina ha recentemente inaugurato la sua prima base militare all’estero – un privilegio che solo pochissimi Paesi al mondo si possono permettere – elargito un prestito di 590 milioni di dollari per la costruzione del porto di Doraleh e finanziato la costruzione di un acquedotto. Il debito pubblico di Gibuti è cresciuto moltissimo negli ultimi anni, e si stima che il 18% del Pil del Paese sarà necessario per ripagare il prestito contratto per finanziare questi progetti.

Operai a lavoro a Dondo, Angola

È la nuova Via della seta, o One Belt One Road. Un progetto transcontinentale di ammodernamento di trasporti e servizi che passa per diversi Paesi in via di sviluppo, dal Pakistan, allo Sri Lanka, dal Kazakistan all’India, fino ad arrivare anche, appunto, a diversi Stati del continente Africano. Il 3 settembre scorso, nel corso del terzo Forum sulla cooperazione tra Cina e Africa, il presidente cinese Xi Jinping ha annunciato di fronte a 50 capi di Stato africani che il suo Paese spenderà – in varie forme di prestito – altri 60 miliardi di dollari nel continente. A finanziare tutto questo è principalmente la Exim bank of China, che, diversamente dai vari enti internazionali, come il Fondo monetario internazionale o la Banca mondiale, elargisce denaro senza porre condizioni di tipo ambientale o di tutela dei diritti umani, e senza curarsi della reale possibilità che il Paese in oggetto ha di ripagare il suo debito. Nelle miniere di proprietà cinese dello Zambia per esempio, sono stati riportati casi di gravi abusi sui lavoratori, in violazione delle norme internazionali e della legge stessa del Paese: turni di lavoro di 12 o anche 18 ore, repressione delle attività sindacali e scarse condizioni igienico-sanitarie.

Il Presidente della Repubblica popolare cinese Xi Jinping insieme al Presidente dello Zambia Edgar Lungu, Pechino, 2015

Le motivazioni dietro questa strategia politico-economica sono presto dette. La Cina è uno dei Paesi con il tasso di crescita più alto al mondo, poco al di sotto del 7% annuo, ormai da diverso tempo. Questo ha fatto sì che il reddito medio annuale dei cinesi si alzasse e, dall’inizio del millennio, moltissimi cittadini passassero dal ceto basso a quello medio, aumentando il loro potere d’acquisto e la possibilità di ottenere un’educazione di buon livello. L’incredibile sviluppo che ha attraversato il Paese ha trasformato la forza lavoro cinese, che è passata da “poco qualificata” a “mediamente qualificata”, alzando il prezzo del lavoro e rendendo dunque la Cina meno competitiva sul piano internazionale. L’economia cinese ha bisogno, da un lato, di uno sbocco di mercato per i suoi capitali, dall’altro di una massa di operai a bassa specializzazione e basso costo. L’Africa è diventata per la Cina quello che la Cina è stata, e in parte è ancora, per molti Paesi già industrializzati: un bacino di lavoratori con poche tutele e bassa remunerazione.

Ma la ragione per cui la Cina sta investendo così tanto in Africa non è solo economica – esattamente come non lo era, e non lo è nemmeno oggi, per il colonialismo occidentale – ma è anche e soprattutto politica. Nel 1971, nel Palazzo di Vetro dell’Onu a New York, si è tenuta una delle assemblee generali più importanti nella storia di questa istituzione. I rappresentanti degli Stati membri si sono espressi su quale dovesse essere il governo ufficialmente riconosciuto per il grande Paese asiatico: da un lato c’era la Repubblica popolare cinese, con un governo d’ispirazione comunista che rivendicava la sovranità sull’intero territorio cinese, dall’altro, la Repubblica di Cina, ex colonia olandese e poi giapponese, tornata sotto il controllo di Pechino dopo il secondo conflitto mondiale, ma resasi indipendente in seguito alla guerra civile terminata nel 1949. Il risultato è noto a tutti, tant’è che oggi la Repubblica di Cina, limitata al solo territorio dell’isola di Taiwan, è tra i pochissimi Stati a non essere rappresentato alle Nazioni unite. Allora furono 45 le nazioni africane che votarono in favore di Taiwan; oggi sono pochissime quelle che intrattengono rapporti commerciali con Taipei, anche perché la Repubblica popolare taglia ogni rapporto con chiunque scelga di percorrere quella strada. Lo spostamento di orientamento politico si è reso evidente sempre in occasione di una votazione al Palazzo di Vetro, quando la maggior parte degli Stati africani ha sostenuto la Cina votando a sfavore della risoluzione contro la violazione dei diritti umani in Nord Corea.

Il ministro degli Esteri cinese Chiae Kuan-Hua (a sinistra) e il rappresentante delle Nazioni Unite Huang Hua ridono mentre prendono posto all’Assemblea generale delle Nazioni Unite per la prima volta, 1971

Il Burkina Faso è uno di quei pochi Stati africani alleati con Taiwan da oltre vent’anni. Il ministro degli Affari esteri Alpha Berry ha dichiarato che nel 2017 il suo Paese ha ricevuto offerte incredibili da parte della Repubblica popolare, anche di oltre 50 milioni di dollari in investimenti (il Pil del Burkina Faso è di 14 miliardi), ma si è sempre rifiutato di diventare l’ennesimo Paese africano sotto l’influenza cinese, evitando persino di partecipare al Forum per la Cooperazione Cina Africa del 2015. E i tentativi di Pechino di conquistare il controllo su questo piccolo Stato non si sono limitati solo alle offerte irrinunciabili: fonti diplomatiche hanno dimostrato che la campagna elettorale di Zéphirin Bagré, avversario dell’attuale presidente Kaboré e sostenitore dei rapporti con la Repubblica popolare, è stata finanziata da Pechino con 4,6 milioni di dollari.

Nonostante tutto questo, il dibattito sull’opportunità per i Paesi del continente africano di entrare nel progetto di Pechino continua a produrre opinioni contrastanti. In Occidente molti hanno espresso la propria preoccupazione: l’ex segretario di Stato americano Rex Tillerson, per esempio, ha accusato la Cina di aver usato “pratiche di prestito predatorie”, mettendo a rischio la crescita e creando pochi posti di lavoro per i locali. Christine Lagarde, dal Fondo monetario internazionale, ha allarmato i Paesi destinatari degli investimenti di Pechino della possibilità di un default per via dell’eccessivo debito.

Ndola, Zambia

La preoccupazione americana ed europea appare ipocrita e fuori luogo in quanto da secoli utilizzano il loro potere, prima militare, poi economico, e infine politico, per sfruttare i Paesi in via di sviluppo di tutto il mondo. In merito a queste affermazioni sulla Cina e l’Africa, il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz ha paragonato l’Occidente alla volpe che non arriva all’uva. Più voce in capitolo ce l’hanno i rappresentanti eletti degli Stati africani. L’ex presidente dello Zambia Michael Sata ha scritto, in una relazione presentata ad Harvard, già nel 2007, che “Lo sfruttamento coloniale europeo, se comparato a quello cinese, appare benigno in quanto, anche se lo sfruttamento commerciale era altrettanto dannoso per l’Africa, i colonizzatori hanno investito in infrastrutture sociali ed economiche. Gli investimenti cinesi invece, si focalizzano sul prendere tutto ciò che si può dall’Africa, senza nessun interesse per il welfare dei locali.” Non dev’essere della stessa opinione l’attuale capo di Stato zambiano, Lungu, che accetta di buon grado “gli aiuti” di Pechino.

Ma, come si diceva, le opinioni sono contrastanti e c’è anche chi crede che l’intervento cinese in Africa sia positivo. L’analista ghanese Michael Jottoh si è detto sicuro che, nonostante la Cina sia indubbiamente la più avvantaggiata tra le parti, esistono grandi vantaggi anche per i Paesi africani. Anche la studiosa americana Deborah Bräutigam ha difeso l’attività predatoria della Repubblica popolare.

Edgar Lungu con alcuni lavoratori cinesi

Il punto è, quanto dovremmo essere costretti a sacrificare, in termini di diritti umani e benessere della popolazione, in nome dello sviluppo economico – ammesso e non concesso che i frutti di tale sviluppo finiscano poi nelle mani di chi ne è il legittimo detentore? Secondo l’analisi avanzata da Timoty Cheek e David Ownby su The Dissent Magazine, dopo la morte di Mao, a metà degli Settanta, il successore Deng Xiaoping ha rotto con l’internazionalismo e ha proposto un’idea di socialismo con caratteristiche cinesi, una visione che ha messo la crescita economica davanti alla rivoluzione. Ora anche il presidente Xi Jinping punta sulla narrazione dell’unicità del modello cinese, che sarebbe riuscito laddove lo stalinismo e il neoliberismo hanno fallito: far progredire la Cina sul piano economico, mantenendo saldi gli ideali comunisti. Ideali che però non sembrano essere presi troppo in considerazione, considerata la complessa relazione tra il governo di Pechino e i diritti dei lavoratori.

Come fa notare lo studioso americano Jeff Wasserstrom, co-autore del libro La Cina del Ventunesimo secolo: ciò che tutti devono sapere, le relazioni tra la Repubblica popolare e gli Stati africani non sono tutte uguali, e vanno analizzate una per una. E anche il paragone con momenti storici passati, come il colonialismo occidentale dell’Ottocento o il Piano Marshall, è un esercizio inutile. Ciò non toglie che, ancora una volta, l’Africa sia contesa tra potenze straniere che traggono vantaggio dallo sfruttamento delle sue risorse, lasciando poco o niente alla gente del posto, e che questo avviene spesso con il benestare dei leader locali, come dimostra il caso dello Zambia e della svendita della prima pagina del quotidiano di Stato. Un quotidiano che non parla più ai suoi stessi cittadini.

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