Dopo più di 40 anni dalla 194, in Italia le donne sono ancora costrette ad abortire clandestinamente

Le interruzioni volontarie di gravidanza in Italia sono in lenta e progressiva diminuzione. I dati dell’ultimo rapporto del ministero della Salute al Parlamento confermano un trend ormai consolidato dagli anni Ottanta. Tra le ragioni principali ci sono il calo demografico, la maggior consapevolezza nell’uso dei contraccettivi e l’aumento dell’uso della contraccezione d’emergenza, dal momento che non esiste più l’obbligo di prescrizione medica per le pillole del giorno dopo e dei cinque giorni dopo per le maggiorenni. Secondo dati Istat riportati nel medesimo rapporto, sempre più donne ricorrono all’interruzione di gravidanza mediante aborto farmacologico, un’alternativa all’aborto chirurgico autorizzata in Italia dal 2009 dopo una lunga battaglia.

L’aborto farmacologico consiste nell’assunzione di due farmaci a distanza di due giorni l’uno dall’altro: il mifepristone (Ru486), che provoca il distaccamento dell’embrione, e la prostaglandina, che stimola le contrazioni dell’utero che favoriscono l’espulsione dei tessuti. I vantaggi sono molteplici: evita l’intervento chirurgico e l’anestesia, diminuisce il rischio di infezione e in molti Paesi è usato nella primissima fase della gravidanza. La stessa Organizzazione mondiale della sanità considera l’Ivg chimica un metodo più efficace e più sicuro di quella chirurgica. Tuttavia la percentuale italiana di donne che vi ricorrono, il 15,7%, è decisamente più bassa di quella che si registra in altri Paesi: 57% in Francia, 60% in Inghilterra, 65% in Portogallo, 90% in Svezia. Come mai?

Per prima cosa, a differenza di altri Paesi, in Italia si può scegliere di ricorrere all’aborto farmacologico entro il 49esimo giorno di amenorrea, ovvero a sette settimane dall’ultimo ciclo mestruale. In tutti gli altri Paesi europei le settimane sono nove, in quanto non esistono evidenze scientifiche che ne sconsiglino l’uso entro questo termine; negli Stati Uniti, il mese scorso, l’agenzia del farmaco (FDA) ha esteso a 10 le settimane in cui è possibile assumere il mifepristone. Solitamente la donna si accorge di essere incinta alla quarta settimana, poi passa qualche altro giorno tra test e appuntamento per ottenere il certificato medico. Dunque, nella migliore delle ipotesi, la donna ha a disposizione solo 14 giorni o poco più per ricorrere all’aborto farmacologico. Sullo sfondo, l’ultimo dato sull’elevato numero di ginecologi obiettori di coscienza: il 68,4%, seppur in lieve calo rispetto al 70,9% dell’anno precedente. Ma i dati (in questo caso del 2016) cambiano notevolmente da regione a regione: si va dal 17,6% della Valle d’Aosta a percentuali che oscillano tra l’84% e l’86% in Sicilia, provincia di Bolzano, Abruzzo e Puglia, per finire con l’88,1% della Basilicata e il 96,9% del Molise.

Una situazione “mortificante,” ci dice Mirella Parachini, ginecologa al San Filippo Neri, tra le pioniere nell’applicazione della 194. “Se c’è un farmaco innovatore, in qualunque settore della medicina, non è che l’Italia dev’essere indietro di vent’anni rispetto agli altri Paesi occidentali. È medicina, non può essere soggetta a una discriminazione ideologica. Ora sono passati dieci anni dall’immissione in commercio: possibile che la classe medica non abbia un sussulto di dignità nel dire che le donne italiane sono inspiegabilmente discriminate rispetto a quelle degli altri Paesi?”

In Italia siamo anche gli unici a prevedere il ricovero ordinario di tre giorni per una pratica che altrove si svolge in regime di day hospital, anche presso consultori e ambulatori. A prescrivere l’obbligatorietà del ricovero sono le linee guida del Consiglio superiore di sanità, adottate dal ministero, al fine di “garantire la tutela psicofisica della donna”. “Una scelta guidata da spirito puramente ideologico, punitivo,” secondo Anna Uglietti, ex responsabile dell’ambulatorio Ivg della clinica Mangiagalli di Milano. Alcune regioni, come l’Emilia Romagna, il Lazio e la Toscana, hanno deciso da subito di non seguire queste indicazioni. A queste si sono poi aggiunte Puglia, Umbria e presto lo farà anche la Lombardia. Nelle altre regioni, se si vuole evitare di passare la notte in ospedale, occorre seguire questo iter: la paziente sceglie volontariamente di dimettersi dopo l’assunzione del primo farmaco, il mifepristone, e al contempo prenota un nuovo ricovero di lì a due giorni per completare la procedura con la prostaglandina. C’è poi una questione economica: ogni volta che un paziente viene ricoverato, la regione di riferimento eroga alla struttura ospedaliera un corrispettivo economico (cosiddetto Drg) per la prestazione sanitaria, che ammonta a diverse centinaia di euro, a seconda del numero di giorni di ricovero. “Questo è un esempio di malgoverno della sanità,” continua Parachini, “perché l’aborto farmacologico è una pratica che si potrebbe benissimo fare in ambulatorio, garantendo un risparmio di risorse per le regioni”.

Alcune strutture, poi, non accordano il ricovero per mancanza di posti letto, aprendo le porte al solo aborto chirurgico. Il regime di day hospital e la possibilità di assumere la pillola in ambulatorio o in consultorio, come all’estero, garantirebbero invece la piena libertà di scelta della donna. Inoltre, quel 20% di donne che viene comunque sottoposta a ricovero ordinario occupa un posto letto che si potrebbe lasciare libero per altre necessità.

La situazione si aggrava se si considera che oggi, per superare alcuni ostacoli legali o per disinformazione, si può anche acquistare clandestinamente una pillola via internet. A lanciare l’allarme per prima è stata la Procura di Genova, nel 2013, con due inchieste per aborto fai-da-te, legate soprattutto a prostituzione e casi di donne straniere che, spesso senza documenti, non vanno in ospedale per timore della loro condizione giuridica o perché non sanno che in Italia è legale e gratuito abortire in strutture pubbliche. Nei casi di aborto clandestino menzionati dalla Procura e dai medici dell’ospedale genovese Villa Scassi, si parla di un farmaco che viene utilizzato per la prevenzione delle ulcere gastriche, ma che, se usato in modo improprio, può portare all’aborto, con potenziali complicanze. Secondo un’indagine condotta dall’Espresso nel 2015, il kit si può comprare via internet e arriva direttamente a casa, entro 5 giorni lavorativi e per meno di 180 euro.

La possibilità può essere ancor più allettante per le minorenni, che potrebbero preferire l’anonimo acquisto online alla procedura legale, per la quale si richiede il consenso dei genitori (anche per l’aborto farmacologico) o un’autorizzazione del tribunale dei minori. In quanto si tratta di una procedura illegale e sommersa, non si possono avere dati sull’acquisto di queste pillole. Marina Ravizza, ginecologa all’ospedale San Paolo di Milano, conferma durante una conferenza stampa il sospetto che ultimamente stiano aumentando gli accessi in pronto soccorso di donne e ragazze con conseguenze di un aborto fai-da-te eseguito senza seguire le indicazioni mediche.

Ma questa non è l’unico tipo di aborto clandestino che si registra in Italia: molti medici infatti eseguirebbero l’Ivg chirurgica o farmacologica in modalità e strutture illegali. L’ultima rilevazione dell’Istituto superiore di sanità, che si basa su dati raccolti fino al 2012, stima che i casi siano tra i 12 e i 15mila all’anno. “Quando anni fa lavoravo al pronto soccorso,” continua Ravizza, “non mi capitavano casi del genere; ora sento donne che mi dicono: ‘io sono andata da un medico che mi ha proposto di farlo fuori dall’ospedale perché qui c’è troppo tempo da aspettare e le cose non funzionano bene’. Questo è gravissimo perché evidenzia disinformazione e mancanza di fiducia nelle istituzioni”.

Per tutte queste ragioni sono necessarie le battaglie per chiedere di rimuovere quelle condizioni ingiustificate che limitano l’impiego dei farmaci per l’aborto farmacologico. Lo hanno fatto, con un appello, alcune associazioni tra cui Amica, Luca Coscioni e Aied, rivolto prima alla ministra Lorenzin e ora rilanciato alla ministra Grillo. L’associazione Enzo Tortora Radicali Milano sta conducendo, insieme ad altre trenta associazioni, una raccolta firme per una proposta di legge regionale da presentare in Lombardia, Aborto al Sicuro. Sara Martelli, coordinatrice della campagna ci spiega che la stessa proposta verrà portata nelle altre regioni italiane.

Dall’altra parte della barricata, invece, ci sono i movimenti pro-life, che nei giorni dell’immissione del mifepristone in Italia condussero una crociata sotto la guida dell’allora sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella, per dissuadere l’Agenzia del farmaco dall’approvazione, e che ora si scagliano contro le Regioni che aprono al day hospital. Poi, più in generale, ci sono i vari Pillon, Gandolfini e congressisti della famiglia.

A quarant’anni dalla legalizzazione dell’aborto, ricomincia dalle firme la battaglia per una sessualità informata e consapevole e per garantire alle donne l’accesso ad un diritto riconosciuto per legge.

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