“Real” ci chiede cosa resti per sentirci umani in un mondo sempre più virtuale - THE VISION
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Anni fa, non ricordo precisamente quanti ma sicuramente molto prima che diventasse un tema quotidiano nel dibattito pubblico, partecipai alla mia prima e unica esperienza con la realtà virtuale. In una stanzetta della Cisterna di Fondazione Prada a Milano, seduto su una panca, mi toglievo le scarpe mentre attorno a me erano ammucchiate tutte quelle dei migranti trovate al confine tra Messico e Stati Uniti. Nello spazio accanto, la sabbia che ricopriva il pavimento si sentiva sotto ai piedi, fisica, mentre un visore, che permetteva di muoversi liberamente, sfumava il confine tra soggetto e spettatore facendo rivivere un frammento del viaggio di un gruppo di rifugiati che cercavano di fuggire, essere liberi, fino a che la polizia non li inchiodava alla loro esistenza. Sulle note del telefono – ecco, era il 2017, lo smartphone come estensione e sostituzione della memoria – scrivevo: “Il suono e il vento dell’elicottero sembravano così reali”. Mi accorgo ora che come attributo era adatto, nonostante al momento mi avesse lasciato perplesso: il suono e il vento dell’elicottero infatti erano reali, non dovevano sembrarlo; semplicemente non erano fisici, ma virtuali.

Robot, intelligenza artificiale, smartphone, visori per la realtà virtuale, social network, piattaforme, console di gioco, sono estensioni senza le quali non riusciamo più a stare. Non solo sono diventati delle protesi, ma sembra stiano sempre più soppiantando il nostro corpo, un tempo primo e più naturale strumento dell’essere umano, come scriveva l’antropologo francese Marcel Mauss, per integrare reciprocamente il nostro sé nel mondo e il mondo in noi. Oggi, invece, la nostra corporeità appare quasi insufficiente in confronto agli infiniti mondi e versioni di noi stessi che ora possiamo vivere digitalmente. Esistere fisicamente, poi, non è più una condizione necessaria per esistere virtualmente: dati, voci, immagini, preferenze che ci appartengono possono essere conservati anche dopo la nostra morte, così come esistono corpi e nomi che nascono e vivono solo nella rete, come i virtual influencer. È a ragionare su questo rapporto che ci spinge Real, l’ultimo documentario della regista romana Adele Tulli, presentato in prima mondiale alla 77esima edizione del Locarno Film Festival e che sarà proiettato domenica 10 novembre, alle 18:00, al Cinema di Godard di Fondazione Prada, a Milano.

Il film, premiato all’ultima edizione del Milano Film Network Atelier quando ancora era in produzione e aveva il titolo provvisorio di Invisible, è infatti un’indagine su quanto e come l’accelerazione digitale in cui siamo immersi ogni giorno abbia inevitabilmente alterato e risemantizzato il nostro significato di realtà e di cosa o meno possa essere definito reale. Esplorando le diverse forme di intimità e socialità, ma anche di liberazione e dipendenza – due facce della stessa medaglia, che sperimentiamo nell’ambiente al contempo familiare e alieno della rete – Real ci introduce in un mondo caleidoscopio e schizofrenico, tratteggiato attraverso vite quotidianamente connesse ai dispositivi digitali, che – come un mosaico che visto da lontano acquista piano piano una forma riconoscibile che da vicino fatichiamo a identificare – ci rimanda inevitabilmente il riflesso di noi stessi, delle nostre relazioni, dei nostri bisogni. Un mondo sì interamente costruito a partire dalle nostre esperienze online ma che non recide mai il legame con la sua alternativa fisica, a cui ci riporta continuamente anche attraverso l’immagine dell’infrastruttura che permette ai nostri dispositivi di funzionare. Una realtà così tanto smaterializzata ha infatti un impatto sul pianeta non indifferente, tra consumo di energia e dispendio d’acqua per raffreddare le strutture hardware.  

In diverse interviste, Tulli sottolinea come, essendo nata nel 1982, l’anno precedente alla nascita di Internet, con l’introduzione di un protocollo capace di fornire un modo standardizzato per i computer di comunicare tra loro su una rete, sente di aver accompagnato tutti gli sviluppi graduali della tecnologia, un tema che la affascina da sempre. Se penso alla mia storia personale con il mondo digitale, riesco a individuare tre fasi precise di ciò che ha significato usare e vivere nella rete: gli anni Duemila, quando ancora era necessario accedere a una postazione fissa per entrare nel mondo virtuale, fosse nello studio di papà o nella biblioteca del paese, con l’attesa che la rete si collegasse adeguatamente e i suoni del modem analogico, con una divisione netta, almeno nella percezione, di cosa significasse navigare sulla rete e il mondo fisico. Il primo laptop, o meglio, ciò che quel pesantissimo portatile permetteva di fare fuori dallo sguardo genitoriale: i primi porno, e quindi con loro i primi dubbi sulla sessualità, i trilli di MSN, la pagina di MySpace, in cui ogni settimana cambiavo canzone di sottofondo o pubblicavo citazioni di film e libri, senza mai correre il rischio di sceglierne una allegra, di canzone o citazione, pena la perdita completa della facoltà di potermi considerare un adolescente (a ripensarci ora, quel modo di utilizzarlo conteneva già in sé i prodromi di ciò che oggi più facciamo sulla rete: alterare, estendere, ribaltare la nostra identità). E poi gli smartphone e i social, il momento cioè in cui internet non era solo internet ma era mobile, cioè usciva dai confini dei palazzi, delle case, e ha iniziato ad accompagnarci ovunque, diventando raggiungibile in ogni momento. È forse quello il momento in cui le due dimensioni – quella fisica e quella virtuale, per quanto entrambe le definizioni oggi mi sembrino sempre parziali, mai pienamente aderenti all’esperienza che davvero facciamo del mondo fisico e del mondo virtuale – hanno iniziato inesorabilmente a collassare l’una nell’altra. 

L’idea che internet sia un regno separato, o che ci sia una qualche divisione tra “cyberspazio” e “meatspace”, come viene indicata la realtà fisica, è ormai sorpassata. Il confine si sta assottigliando sempre più: ovunque – o quasi – esiste attività umana c’è un dispositivo digitale. “Ci troviamo ora immersi in un presente digitale in cui alcune delle categorie fondamentali con cui definivamo il mondo stanno scomparendo, come i confini tra esperienze fisiche e virtuali, tra sfera pubblica e privata, tra i concetti di vero e di falso, così come i confini tra un corpo e le sue simulazioni digitali. Fondamentalmente, ciò che non è più così ovvio è la percezione stessa di cosa sia reale”, racconta Tulli, che con Real conferma la sua propensione a realizzare documentari che non si limitano a registrare dei fatti ma a essere indagine del presente, senza necessariamente dover approdare a una risposta, a una risoluzione. Nel film, episodi all’apparenza slegati si alternano tra loro uniti dall’infrastruttura in cui avvengono, internet, con un risultato che sembra seguire la dinamica con cui ogni giorno viviamo i social, saltando da un dispositivo all’altro, da una piattaforma all’altra. “La sfida più grande sul piano tecnico è stata girare dentro la realtà virtuale. Non esiste ancora una pratica condivisa quindi abbiamo dovuto imparare da zero”, continua Tulli. “Nella piattaforma che vedete dal film mondi e avatar sono creati dagli utenti, quindi abbiamo creato un nostro avatar operatore che avesse un drone per fare le riprese. Quindi abbiamo usato i punti di vista degli avatar e due operatori invisibili dentro la realtà virtuale che in realtà sono dei gamer esperti del gioco”.

I protagonisti – umani, robotici, virtuali – sono alle prese con relazioni online, lavori digitali, cybersessualità, case automatizzate e città del futuro. Una famiglia che abita in una piccola smart city appena costruita in Corea del Sud, dotata di tutte le tecnologie più avanzate; una comunità queer che si incontra nella realtà virtuale, per esplorare liberamente la propria identità di genere e la sessualità attraverso avatar; pazienti di una clinica per dipendenze da internet; una ragazza che lavora come camgirl da casa, esibendosi in spettacoli per adulti in live; un rider che effettua consegne a domicilio tra le strade di Seoul mentre è in streaming sul proprio canale di vlog. La loro storia non è raccontata solo dall’esterno, ma anche attraverso i filmati grezzi dei loro stessi dispositivi, uno sguardo invisibile e sorvegliante. Uno sguardo che ci segue ovunque, osservandoci sempre più connessi e soli nelle nostre esistenze. 

La tecnologia è neutra, non è né buona né cattiva, continuiamo a ripeterci come un mantra, eppure mi sembra che sia una verità parziale, perché prima che a noi i nostri dispositivi digitali risponde alle esigenze di chi l’ha pensata e creata. Non è una forza neutrale e inarrestabile, che opera indipendentemente dai contesti sociali, economici e culturali. Certo, ci permette di vivere liberi, estendendo le nostre esperienze, anche sollevandoci per un momento dalle pressioni che subiamo. C’è un momento, per esempio, in cui gli avatar non umani di due donne queer si incontrano in un mondo altro, virtuale, consolandosi. Non ho più avuto episodi di solitudine e depressione da quando sono qui, confessa l’una all’altra, mentre le accarezza le orecchie da coniglio. “Mi immergo in uno spazio virtuale per godermi la vita, più che nel mondo là fuori, che è sempre poco gentile”. Mi sembra così reale, dice. Il costo da pagare per le nostre vite online, però, anche se spesso non ce ne rendiamo conto, a volte è alto. Perdiamo consapevolezza di noi, dei nostri legami. Proprio come accade quando sullo schermo appare un gruppo di influencer che racconta quanto il lavoro del content creator sia solitario, con episodi di ansia e depressione. Passiamo le giornate a parlare a uno schermo, rivolgendoci a una moltitudine senza forma, non sappiamo chi ci ascolta, se qualcuno ci ascolta.

“Reale”: cosa, che esiste effettivamente, concretamente, dall’etimologia latina “res”, ma anche re, sovrano, da quella francese “reials”, perché a lungo l’esperienza fisica è ciò che ha guidato e comandato il nostro sentire. Su cosa possa esserlo oggi, in questo continuo passaggio tra fisico e virtuale, le risposte non sono precise. Attraversiamo lo specchio, come Alice, o forse ci viviamo perfettamente a metà, colti e immobilizzati nell’atto di oltrepassarlo. Cosa resta per sentirci umani lo scopriremo più avanti. O forse è solo una questione di consapevolezza, lo sappiamo già. Il nostro eterno bisogno di tenerezza. È questo che più di ogni cosa mi sembra emergere da Real, a nostra difficoltà a entrare in contatto con l’Altro, a comunicare, oggi che pur vivendo questo bisogno ci ritroviamo incapaci di esprimerlo ad alta voce, di dargli corpo, appunto. Fammi essere libero di essere chi vorrei essere. “Show some love”, recita il primo comando che si può dare alla camgirl, basta mandare l’emoticon di un orso, mentre seduta con la chitarra in mano canta una canzone che ha scritto, vestita solo di un reggiseno con le fiamme. “Mostraci un po’ d’amore, facci sentire importanti”. Basta l’emoticon di un orso. Consolami, amami, abbracciami, non farmi sentire solo, sola. Anche solamente qui, dove sembra così reale.

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