Indagando l’etica robot, “Mars Express” ci interroga su cosa significhi essere umani - THE VISION
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Una tra le molte motivazioni per cui penso di non voler mai diventare genitore è legata all’eredità morale che comporta avere un figlio. Non è una questione relativa alla sovrappopolazione, al suo impatto ambientale o al dubbio sulla qualità – e la facilità – del mondo che lasceremo alle prossime generazioni – o meglio, non solo almeno –, ma è soprattutto una domanda riguardante il come quella persona si muoverà tra e con tutte le altre, la realizzazione dei valori in cui credo. È probabilmente un dubbio che non ha fine chiedersi quanto bene avremo fatto il nostro lavoro, quanto e se sarà una buona persona – qualunque cosa significhi. La morale, d’altronde, è un concetto mobile, perché la sua universalità non è altro che un accordo, un compromesso, definita da un contesto, da un luogo, da un dove, nonostante spesso si tenda a rimuoverlo, ad assolutizzare. L’abbiamo resa l’unicità dell’agire umano eppure, oltre alla necessità di superare l’antropomorfismo che per secoli ha caratterizzato le intuizioni della maggior parte di filosofi e scienziati, la morale è una questione che nel futuro – seppur non strettamente prossimo – riguarderà sempre più anche il nostro rapporto con le macchine, i robot, gli intelletti sintetici. 

Da 2001: Odissea nello spazio a Ghost in the Shell, passando per Blade Runner, Io, robot e Matrix, lo status morale della tecnologia è un tema frequente nella fantascienza e nei prodotti culturali, almeno a partire dalle storie sui robot del biochimico e scrittore sovietico, naturalizzato statunitense, Isaac Asimov. Ed è su questo filone che si innesta anche Mars Express, sorprendente lungometraggio d’esordio del regista francese Jérémie Périn, proiettato in anteprima italiana venerdì 18 ottobre al Cinema Godard di Fondazione Prada a Milano, in collaborazione con il Trieste Science+Fiction Festival, dove ha vinto il premio della critica. Presentato al Festival di Cannes e al Festival di animazione di Annecy, il film mescola animazione 2D e 3D a una sceneggiatura scritta a quattro mani da Périn e Laurent Sarfati, interrogandosi su cosa, in fondo, significhi essere umani.

Nel 1942, nello stesso racconto in cui per la prima volta compariva la parola “robotica”, proprio Asimov introduceva delle leggi per regolare l’esistenza e le azioni dei robot. La prima legge della robotica sancisce che “un robot non può recare danno agli esseri umani, né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, gli esseri umani ricevano danno”, stabilendo una responsabilità anche per le conseguenze delle azioni indirette; la seconda recita che “deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, tranne nel caso che tali ordini contrastino con la Prima Legge”, indicando una precisa gerarchia; la terza aggiunge che “deve salvaguardare la propria esistenza”, a patto che ciò non  contrasti con le altre due leggi. Quarant’anni dopo, nel romanzo I Robot e l’Impero, Asimov aggiungeva una quarta regola, detta anche Legge Zero, anteposta in ordine di importanza alle precedenti: “un robot non può recare danno all’umanità, né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, l’umanità riceva un danno”, sottolineando come l’importanza del bene collettivo superi quello individuale. È proprio su questo confine che si muove Mars Express: se la prima immagine ci introduce alle leggi di Asimov, l’ultima ci interroga sul nucleo essenziale che sfugge a quelle norme: il libero arbitrio. 

Il film, attingendo a piene mani dal genere sci-fi, prova a immaginare la società del 2200, nella cui gerarchia gli umani restano in cima. Sono la classe dominante, comandanti di una piramide sociale che poggia su un nuovo proletariato fatto di robot. Alcune di queste creature esistono in corpi metallici, quelli a cui siamo più abituati a collegare visivamente l’idea di androidi, in ogni forma e colore, mentre altri indossano travestimenti simili alla pelle umana per confondersi con i mortali in carne e ossa. A distinguerli da noi è il colore del sangue, di un blu come quello dei polpi. Non tutti sono però convinti di questo sistema: alcune persone credono che i robot meritino la libertà, che debbano essere indipendenti e autonomi, senza più obbedire ai comandi umani, ai loro umori. D’altronde siamo i primi a non passarsela sempre bene: mentre la Terra è diventata “il solito covo di disoccupati”, su Marte i soldi continuano a stabilire la dignità delle vite. Chi non può permettersi di studiare o fa lavori con cui si sopravvive a malapena, può rivolgersi alle brain farmers, le fattorie di cervelli, mettendo a disposizione i propri circuiti cerebrali per alimentare il calcolo delle macchine. Jun Chow, studentessa di cibernetica, è una di queste ed anche la custode inconsapevole di un segreto che potrebbe minacciare il futuro della civiltà. Sulle sue tracce non ci sono solo dei sicari feroci ma anche i protagonisti della pellicola, Aline Ruby e il suo partner androide Carlos Rivera, un robot al cui interno è stata impiantata la coscienza di un essere umano.  

“L’intento grafico è quello di muoversi verso un realismo raffinato, verso uno stile che consente di accentuare le differenze tra umani e non umani ma anche, per la sua neutralità, di adattarsi naturalmente a tutti i diversi toni presenti nel film, che si tratti di momenti cupi o più comici”, spiega Périn. “Il sound design segue la stessa logica: l’intero paesaggio fa dimenticare la propria natura artificiale attraverso la sua naturalezza e coerenza”, aggiunge. Tra le scelte narrative più interessanti di Mars Express c’è il fatto che persino in questo lontano futuro, su un altro pianeta, in una società completamente diversa, la condizione umana prevale nelle sue forme più frustranti. A bordo dell’astronave che fa la spola dalla Terra al Pianeta Rosso, per esempio, Aline deve ancora fare la fila per usare il bagno, che ovviamente scorre alla stessa velocità del 2022. E nonostante i minibar nelle camere d’albergo si chiudano da sole quando nella stanza è presente qualcuno per cui la sobrietà è una conquista, fa ancora fatica a lottare contro l’alcolismo. Dall’altra parte, Carlos, pur avendo conseguito ciò che molti transumanisti pagherebbero oro per avere, cioè la possibilità di essere una macchina e superare senza problemi l’unico ostacolo a cui non si è ancora trovato rimedio, nemmeno nel 2200, cioè la morte, è dilaniato dall’impossibilità di vedere la figlia, perché l’ex moglie glielo impedisce essendo stato violento in passato. C’è una scena, in particolare, in cui Carlos, pur piangendo copiosamente, non riesce ad asciugare le proprie lacrime, perché le braccia robotiche oltrepassano l’inconsistente ologramma che è il suo volto. Questi dettagli sui fastidi e sulle lotte irrimediabilmente quotidiane che caratterizzano l’esperienza umana elevano la sceneggiatura di Périn e Sarfati, suggerendo che a prescindere da quanto avanzata possa diventare la tecnologia, alcuni dolori e desideri, purtroppo per noi, sono inevitabili.

Quando si parla di intelligenza artificiale e robotica, la nostra immaginazione di solito si basa su paure che riflettono le nostre ansie e i nostri desideri, che cerchiamo di sedare pensando che le macchine ragioneranno nel nostro stesso modo, avendole create. Ma probabilmente ci sbagliamo, perché potremmo avere difficoltà a comprendere le loro scelte. Non è solo una questione di come agirebbero davanti a un dilemma morale, ma del fatto che nel tempo di un battito di ciglia possono attingere a una vasta gamma di informazioni a noi inaccessibile e metterle insieme in modi che non siamo in grado di capire. Robot sufficientemente intelligenti saranno in grado di operare in modo autonomo dal controllo umano, di fare scelte indipendenti, che avranno conseguenze che noi consideriamo morali. Se un giorno, chissà, riusciremo a creare macchine con progetti, desideri e un senso di sé simili a quelli umani, inclusa la capacità di provare gioia e sofferenza, allora meriterebbero una diversa considerazione etica.

Ma cosa potrebbe essere morale per un robot? È lo stesso concetto valido per una persona? Le norme sono sempre vincolanti in quanto tali, scriveva il filosofo Michel Foucault, e richiedono ripetizione, standardizzazione, automatismi, eppure più che l’idea di imporle sulle macchine occorrerebbe recuperare un pensiero umano eticamente responsabile, in cui creazione e utilizzo dei mezzi tecnici siano finalizzati al raggiungimento di obiettivi collettivi e democraticamente condivisi. Mars Express non finge che le nostre preoccupazioni siano fuori luogo – non solo in termini morali, ma anche politici o economici –, ma dà nuova linfa al genere sci-fi concentrandosi su ciò che la tecnologia potrebbe volere per sé stessa. E, in fin dei conti, sulla banalità di ciò che noi stessi, in quanto umani, a volte desideriamo ottenere.

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