Lavorare da casa riduce il CO2 di 214 mln di tonnellate l’anno. Dobbiamo incentivarlo.

Per chi lavora in ufficio, le giornate si svolgono tutte nello stesso modo: sveglia spesso all’alba, tanto tempo perso nel traffico per raggiungere il posto di lavoro, otto ore in ufficio davanti a un computer e poi di nuovo in qualche ingorgo per tornare a casa. Tutto questo per cinque – per alcuni anche sei –  giorni alla settimana, lasciando davvero poco tempo da dedicare a se stessi, alla famiglia, agli amici e in generale alla propria vita. Per molti c’è una soluzione diversa, che dopo le iniziali perplessità sta prendendo piede anche in Italia, dove è stata regolamentata anche nella legge di bilancio 2019: lo smart working, un nuovo approccio al lavoro senza vincoli di orario basato sul raggiungimento di obiettivi prefissati dall’azienda che non prevede la presenza costante del dipendente in ufficio.

Secondo i dati dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, nel 2019 in Italia il numero di “lavoratori agili” ha toccato quota 570mila. La cifra interessa soprattutto le grandi imprese, mentre in quelle piccole e medie ci sono ancora delle resistenze culturali, dovute, secondo la direttrice dell’Osservatorio Smart Working Fiorella Crespi, alla disinformazione in materia e a un retaggio culturale che lega le ore lavorative a un luogo ben preciso. Anche nel settore pubblico, per esempio in alcuni uffici regionali, comuni e ministeri, è stata avviata negli ultimi mesi una sperimentazione che permette agli impiegati di lavorare da casa un paio di giorni alla settimana. “I benefici economico-sociali potenziali dell’adozione di modelli di lavoro agile sono enormi”, ha detto Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio. “Si può stimare un incremento di produttività del 15% per lavoratore, una riduzione del tasso di assenteismo pari al 20%, risparmi del 30% sui costi di gestione degli spazi fisici per quelle iniziative che portano a un ripensamento degli spazi di lavoro e un miglioramento dell’equilibrio tra lavoro e vita privata per circa l’80% dei lavoratori. Lo smart working deve diventare un nuovo modo di lavorare, un elemento strategico e non un progetto. Per spingere il cambiamento è necessario allineare gli obiettivi del progetto con quelli di business e introdurre dinamiche di engagement mettendo al centro le persone”.  I benefici sono stati confermati anche da uno studio della Harvard Business School: le aziende che permettono ai propri impiegati di lavorare nel luogo e negli orari che preferiscono aumentano la produttività e riducono  turnover e  costi.

I vantaggi non riguardano soltanto il benessere dei lavoratori e la produttività dell’azienda: uno studio del 2018 ha messo in evidenza anche come lavorare dalla propria abitazione – o da qualsiasi altra postazione, purché si abbiano a disposizione un computer e una linea internet – oltre a migliorare la salute degli impiegati faccia bene anche all’ambiente. The Added Value of Flexible Working commissionato dal leader mondiale per la fornitura di spazi di lavoro Regus, è il primo studio socio-economico che analizza l’impatto dello smart working sull’ambiente. Nei risultati si legge che una diffusione su vasta scala del lavoro flessibile ridurrebbe i livelli di diossido di carbonio di 214 milioni di tonnellate l’anno entro il 2030, più o meno la stessa quantità che verrebbe sottratta dall’atmosfera dall’opera di 5 miliardi e mezzo di alberi. In più si risparmierebbero le 3,53 miliardi di ore impiegate ogni anno per raggiungere il posto di lavoro, l’equivalente del tempo passato al lavoro annualmente da circa 2 miliardi di persone. Oltre ai benefici per l’ambiente, ci sarebbero anche cospicui vantaggi economici: se la flessibilità venisse applicata in tutti e sedici i Paesi analizzati nello studio, ovvero Australia, Austria, Canada, Cina, Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna, Hong Kong, India, Nuova Zelanda, Paesi Bassi, Polonia, Singapore, Stati Uniti e Svizzera, il valore aggiunto all’economia mondiale sarebbe pari a oltre 10mila miliardi di dollari.

Nel solo Regno Unito, dove i tempi di percorrenza medi tra l’abitazione e il lavoro oscillano tra i 60 e gli 80 minuti, si risparmierebbero 7,8 milioni di tonnellate di CO2 entro il 2030 e si eviterebbe di trascorrere 115 milioni di ore annue sui mezzi pubblici o privati durante lo spostamento casa lavoro. Numeri paragonabili a quelli dell’Italia dove, secondo una ricerca commissionata sempre da Regus nel 2015, il 40% delle persone impiega oltre un’ora al giorno nel tragitto di andata e ritorno tra la propria abitazione e il posto di lavoro, con una quantità di emissioni di CO2 che ognuno di noi può calcolare utilizzando Map my emissions. Stando ai dati Istat del censimento 2014, sono circa 29 milioni – quasi il 49% della popolazione residente – le persone che ogni giorno effettuano spostamenti per recarsi sul posto di lavoro o di studio e la maggior parte utilizza l’automobile. Se ogni lavoratore percorresse pochi chilometri – magari anche a piedi, o in bicicletta – per raggiungere spazi di lavoro condiviso nel proprio quartiere o lavorasse direttamente dalla propria abitazione, la riduzione del traffico e del numero di automobili porterebbe, oltre alla diminuzione delle emissioni, anche a quella di sostanze inquinanti come il particolato. Tutto questo andrebbe anche ad aumentare il benessere degli impiegati: un report del 2015 della britannica Royal Society of Public Health ha infatti messo in evidenza che il 55% delle persone si sente stressato a causa degli spostamenti e conduce stili di vita poco salutari per la mancanza di tempo libero.

L’opportunità di adottare lo smart working per ridurre le emissioni è ancora più grande nei Paesi in cui, a causa del malfunzionamento o della carenza dei trasporti, per gli spostamenti da e per il luogo di lavoro si utilizza di più l’auto privata. Gli Stati Uniti, per esempio, sono la nazione con il più alto potenziale di miglioramento: nel 2017, dati dell’US Census Bureau alla mano, solo il 5,7% degli impiegati lavorava da casa. Secondo il sito FlexJobs, negli Stati Uniti le politiche di smart working messe in atto da compagnie come Dell, Aetna e Xerox hanno permesso di risparmiare più di 95mila tonnellate di emissioni di gas serra solo nel 2015. Le tre aziende hanno anche ridotto i costi di utilizzo della carta, dell’elettricità e del riscaldamento. Se il numero di imprese che offrono la possibilità ai propri dipendenti di scegliere il lavoro flessibile aumentasse considerevolmente, gli Stati Uniti risparmierebbero 110 milioni di tonnellate di CO2 entro il 2030. A Singapore e Hong Kong, invece, dove il trasporto pubblico è più accessibile agli abitanti e le distanze da coprire più ridotte, si registrerebbe un decremento delle emissioni modesto: circa 0.1 milioni di tonnellate per ciascuna nazione entro il 2030.

Attualmente il Paese in cui si sta facendo sempre più spesso ricorso al lavoro flessibile è la Svezia, dove è già una possibilità per il 51% dei lavoratori. Seguono la Repubblica Ceca, la Slovacchia e la Norvegia, la Germania, l’Austria, l’Inghilterra e l’Italia. Lo sviluppo di questa pratica è ancora lontana dal suo potenziale reale, se si pensa che solo entro il 2030 nella maggior parte delle economie sviluppate una percentuale di impieghi compresa tra l’8% e il 13% potrà beneficiare di pratiche di lavoro flessibile.

Per farlo si può seguire l’esempio della Svezia, dove lavorare da remoto è solo un punto di partenza: a Göteborg si sta anche sperimentando la giornata lavorativa di sei ore e il risultato, in termini di benessere del personale, è molto positivo. Molte altre nazioni, tra cui Francia e Nuova Zelanda, stanno pensando di fare lo stesso, con lo scopo di arrivare a una settimana lavorativa di appena quattro giorni. La domanda è quanto dovrà aspettare l’Italia per adeguarsi a una pratica così vantaggiosa per l’economia e per i cittadini. Secondo un sondaggio svolto da Citrix, piattaforma di workspace digitale, su un campione di cinquecento lavoratori italiani, siamo ancora molto lontani da questa realtà. Tra i Paesi europei interessati dalla survey, l’Italia è quello con la maggior percentuale di lavoratori – il 73% – legata a un contratto che stabilisce un numero preciso di ore a discapito della flessibilità. Pensare a una settimana lavorativa di quattro giorni è, per il 59% degli intervistati, un’eventualità addirittura impossibile.

Per Mauro Mordini, Country Manager di Regus Italia, “il lavoro flessibile è uno strumento molto potente e non bisogna fare l’errore di pensare che a trarne beneficio siano solo le aziende o i singoli lavoratori, perché anche la società e l’economia nel loro complesso hanno da guadagnarci. Le aziende non devono lasciarsi sfuggire l’opportunità di entrare a far parte di questa rivoluzione dello spazio di lavoro”. Quando pensiamo a cosa può fare nel suo piccolo ognuno di noi per limitare i danni dell’emergenza climatica la prima risposta potrebbe essere proprio questa: essere smart, anche sul posto di lavoro.

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