La morte del centro commerciale

“Certo che si trova proprio di tutto qui,” dice John Belushi mentre lui e Dan Aykroyd sono in macchina inseguiti dalla polizia in un centro commerciale, tra manichini decapitati e clienti nel panico.

Nel 1987 c’erano sparsi per l’America circa 30mila shopping mall, dove andava a finire il 50% di dollari spesi nella vendita al dettaglio (il 13% del PNL). Nel 2007, per la prima volta in cinquant’anni, non è stato costruito nessun centro commerciale negli USA, anzi, inizia a esserci il problema di riconvertire quelli che hanno chiuso, alcuni sono diventati chiese, scuole e sedi di Google, quelli deserti diventano bersaglio di fotografi delle rovine. Il motivo è che il centro commerciale è stato sostituito, o da un’esperienza più autentica, o da una più comoda (Amazon e simili).

Fino agli anni ‘90 il mall è stato per i teenager americani il luogo di incontro e passeggiata del doposcuola. Se prima ci si sentiva a proprio agio tra i corridoi di neon e aria condizionata, adesso si cerca, fosse anche solo per instagrammarlo, il negozietto accogliente di quartiere, “vero”, “unico”, con le cartoline seppia e le vecchie lampade di ottone e telefoni di plastica rossi a ornare la vetrina. Il commesso che si ricorda di te, che ti racconta la storia di come scelgono i loro fornitori, i loro materiali. Oppure sta alla finestra ad aspettare il corriere DHL con quel paio di Clarks in offerta, sperando di aver azzeccato il numero. Goodbye Hollister, American Apparell, Accessorize. Basta food court, viva le sedie spaiate di recupero e i tavolini di formica verde. L’avocado sostituisce il Big Mac. Da un bel po’ ormai. Tanto che questo modello meno conformista e più autoriale inizia a essere utilizzato da grandi aziende in altri settori, spacciando tutto per “unico” – come è successo con i finti film indie, vedi Judd Apatow, o con i pub in Inghilterra, comprati da grosse aziende ma mantenendo nome e decor originali.

Il centro commerciale è morto, urlano gli americani. Eppure a Milano ha aperto in autunno – nel cuore del nuovo grande quartiere, dal nome di quello che sembra un social network dei primi anni 2000, CityLife, tutto attaccato – il più grande “distretto commerciale” d’Europa, 32mila metri quadrati e capienza di 700mila persone, metà degli abitanti del comune.

Questo distretto dello shopping – perché chiamarlo centro commerciale fa tanto 1989 – con scale mobili su due piani di superfici marroncine patinate, tra L’Erbolario e la rivendita di capsule Nespresso – si snoda tra le tre torri: quella di Liebeskind, quella di Zaha Hadid e quella di Arata Isozaki. A queste tre vorrebbero aggiungerne altre due secondo i nuovi progetti, la torre di Saruman e quella di Mordor, immagino.

Secondo gli studi di Bloomberg nei distretti commerciali, a comprarci ormai sono solo i ricchi, ma per farlo devono avere flagship stores con marchi come Etro ed Hermes, non Tiger, La Piadineria e Moleskine, perché allora tanto vale passare in Stazione Centrale. O le menti dietro alla pianificazione di CityLife stanno tentando di convincere millenials e generazione Z che hanno sbagliato, che tanto il capitalismo vince anche se loro cercano l’autentico nelle viuzze di Paolo Sarpi, oppure hanno preso una cantonata.

Il centro commerciale all’americana in Italia non ha mai avuto senso, per via di un sistema di pianificazione urbana diverso rispetto alla suburbia ex-prateria delle little boxes di Malvina Reynolds, dove le azioni necessarie di dormire-lavorare-comprare si compiono in luoghi distanti raggiungibili solo in macchina. Negli impianti romani e medievali tutto è più o meno raggiungibile a piedi. Non è un caso che l’antenato del mall nelle città italiane, le ottocentesche “gallerie commerciali”, fosse in centro: Galleria Vittorio Emanuele II a Milano, che collega Duomo e Scala, nata da un’idea di Carlo Cattaneo, che ispirò poi la Umberto I, a Napoli, di fronte al teatro San Carlo. Possiamo considerare nella categoria anche Galleria Mazzini, a Genova, dietro al teatro Carlo felice, e Galleria Colonna, ora dedicata ad Alberto Sordi, a Roma, di fronte a palazzo Chigi, (a ognuno il suo re).

Invece di un bisogno, come poteva essere oltreoceano, il centro commerciale in Italia, distaccato dalla città, con parcheggioni su più piani dove non ritroverete mai la macchina, è stata una sostituzione che ha portato anche alla fine della piccola bottega. Bottega che adesso si sta rifacendo spazio, anche perché c’è un pesce più grande nel lago, tanto grande da non avere nemmeno un suo luogo, da non avere bisogno di parcheggi e orari e commessi: il commercio online, comodo e spietato. Amazon a quanto pare tratta male i suoi impiegati e sta distruggendo l’editoria e le piccole librerie.

Se da un decennio gli americani si sognano trattorie e cartolerie centenarie, noi andiamo da Eataly ignorando il mercato di quartiere, che loro cercano di ricreare con i farmers’ market a Brooklyn.

Un‘ulteriore prova di questa controtendenza italiana potrebbe essere l’imminente apertura di Starbucks a Milano. È lo stesso discorso. In America la catena di caffè di Seattle è cambiata, ha perso quello “che la faceva risplendere”. Da posto esclusivo e hip con gli anni si è lasciato sfuggire il suo fascino diventando una sorta di McDonald’s del caffè, un posto dove andare a far la pipì quando si è in giro, oppure un bersaglio dei meme: Starbucks è considerato l’habitat naturale di quella che internet categorizza spietatamente – e con un termine sessista – come Basic Bitch (stivali UGG, felpa NorthFace e frappuccino). La tazza di carta con la sirena verde ormai attrae solo lo studente italiano in vacanza studio che per dieci secondi si sente dentro a Gossip Girls, si fa il selfie per i social e via.

Le persone cool fino all’anno scorso andavano da Blue Bottle a bere il caffè – dove una volta a Boerum Hill hanno provato a vendermi un caffè a 18 dollari perché i chicchi erano stati cagati da una capra o qualcosa del genere – e anche questa catena morirà, come Starbucks, dato che l’ha comprata Nestlé a settembre. Se “ti vendi” e apri milioni di punti vendita fai urlare ai clienti “È tutto uguale!”, che poi si rifugiano nei cafè indipendenti in stile Oregon-parigino. E poi anche quelli diventeranno un trend e perderanno tutto. Il cerchio della coolness, insomma.

Tornando allo shopping district di CityLife, inaugurato qualche mese fa, sul sito si legge: “Una nuova concezione di spazio per il tempo libero e il lifestyle”. La patina di “nuovo” è un palliativo estetico. Un trucchetto per attirare i consumatori in una zona da rivitalizzare, far salire i prezzi immobiliari dove prima c’era un polo fieristico. Ci hanno infilato dentro anche un poli-ambulatorio e centro prelievi, cinema e supermercato. E parcheggi. Una New Lanark che possa soddisfare gli investitori. Ma forse la risposta dietro al motivo di questa “mossa innovativa”, l’ha data Homer Simpsons, nel 1994:  “Sono stufo sempre della solita minestra. Io voglio esplorare il mondo, voglio guardare la tv con un altro fuso orario, voglio girare in centri commerciali strani ed esotici.”

Gli uomini del capitale sembrerebbero pensare che il consumatore voglia appunto quello: mantenere le stesse abitudini facendogli credere che tutto sia diverso.

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