La politica usa sempre gli anziani ma non fa niente di concreto per aiutarli

Immaginatevi a 75 anni: le ginocchia che scricchiolano su una cartilagine consumata; l’udito che gradualmente si abbassa e ogni “Puoi ripetere?” Di troppo che spazientisce i vostri interlocutori; le scale che diventano un’impresa degna di Reinhold Messner. Allo stato attuale, tra gli over 75, una persona su cinque non è autonoma nello svolgimento delle attività quotidiane. Secondo una recente analisi Istat per Italia Longeva, nel 2030 l’Italia conterà cinque milioni di anziani non autosufficienti. Nel 2050 gli ultra-sessantacinquenni saranno 20 milioni, e 4 milioni gli over 85. Un quadro non proprio rassicurante, che diventa preoccupante se a questi dati aggiungiamo una diminuzione della popolazione nazionale di 2,5 milioni nel giro di trent’anni. In un Paese in cui l’età media cresce costantemente, fronteggiare l’invecchiamento deve diventare una delle questioni più impegnative di tutta la classe politica del prossimo futuro. Per evitare quest’emergenza il governo italiano dovrebbe occuparsi del problema fin da ora attuando politiche di prevenzione, e non soltanto soluzioni d’emergenza. Nella realtà dei fatti si limita a relegare gli anziani all’interno di una categoria svantaggiata e a considerarli un peso piuttosto che persone – e quindi risorse – che vanno integrate nella comunità dell’ambiente in cui vivono.

L’Italia investe soltanto il 10% della spesa sanitaria nell’assistenza a lungo termine lasciando alle famiglie un fardello di 3,5 miliardi e un accesso alle cure domiciliari inadeguato e disomogeneo. Ciò genera una crescente perdita di autonomia e, conseguentemente, di dignità degli anziani. In molti casi, a causa del graduale disgregamento dei nuclei familiari, i parenti non possono (o non vogliono) occuparsi degli anziani bisognosi di cure e assistenza. Le famiglie numerose tipiche dei primi cinquant’anni del Novecento in Italia, in cui tre o più generazioni coabitavano sotto lo stesso tetto, non esistono praticamente più – c’è molta più frammentarietà e spesso i figli si trasferiscono all’estero o comunque lontano dalla città di origine. Anche per questo aumenta la richiesta del badantato, che presenta però dei problemi da non sottovalutare: il più delle volte non è regolamentato, e molti degli assistenti non sono in realtà operatori esperti in grado di offrire cure adeguate. Affidarsi a un badante che operi in casa dell’anziano, anche quando questi non sia totalmente invalido, innalza una barriera tra la persona e la comunità esterna, creando un profondo isolamento e quindi il malessere dell’assistito.

È proprio sul concetto di comunità che si basano alcune soluzioni architettoniche pensate per favorire il cosiddetto “invecchiamento attivo”, un approccio che promuove la salute, la sicurezza e l’integrazione degli anziani, le cui linee guida sono state stilate a livello globale dall’OMS.

Modelli abitativi inadeguati e infrastrutture discontinue costituiscono spesso un limite invalicabile tra l’anziano e il mondo esterno. Il benessere di una persona non si limita soltanto alla salute fisica, ma abbraccia anche quella psichica e sociale. “Si pensa sempre all’anziano come a un altro, non come a se stessi in futuro”, dice Francesco Cocco, ingegnere edile e architetto, co-fondatore dell’associazione Abitare Sociale, che si occupa di invecchiamento attivo e solidarietà tra le generazioni. Una persona che è sempre stata attiva e in buona salute andrà incontro a una frustrazione profonda se quelle che prima erano attività banali e automatiche, come ad esempio entrare nella vasca da bagno, diventano imprese quotidiane. La perdita di autonomia non è soltanto una minaccia alla sopravvivenza, ma alla dignità stessa dell’anziano in quando essere umano. L’isolamento sociale è uno dei fattori che contribuiscono in modo determinante alla depressione in età senile, che mina la salute psico-fisica dell’individuo.

In risposta a queste esigenze, gli studi di architettura Studio8Fold, del Regno Unito, e i tedeschi Lindstedt Architekten hanno elaborato un concetto di micro-village da applicare alla cittadina di Nettlstedt, al nord della Germania. Si calcola che nel 2030 il Paese conterà 3.6 milioni di persone che avranno bisogno di assistenza, oltre a una mancanza di 200mila addetti nel settore. Il progetto “Future Village è stato pensato insieme ai cittadini, fa perno sui benefici del co-housing e mira a potenziare proprio l’assistenza agli anziani. Il concetto di co-housing nasce in Danimarca verso gli anni ’60, in risposta alla sensazione di soffocamento e solitudine generata dal vivere nelle grandi città, con il tentativo di ricreare il clima sociale e abitativo dei villaggi.

Al centro del piano urbano di Future Village c’è la casa di riposo, intorno alla quale si sviluppano le attività comuni e pubbliche, sulla scia di un sistema di assistenza integrata che facilita l’indipendenza della persona anche nella fase dell’invecchiamento. Una visione che si ispira alla famiglia allargata, collegandola alla nozione più che mai contemporanea di “condivisione”, sharing. Recita il manifesto del proposal di Lindstedt e Studio8Fold: “Siamo connessi come non mai, eppure prevale un senso di solitudine e di isolamento. L’architettura dovrebbe creare attivamente spazio libero per catalizzare e celebrare interazione sociale, anziché separare o accumulare beni privati”. In Italia si contano alcuni esempi positivi di abitazione collettiva, come l’Urban Village Bovisa a Milano.

Il fine ultimo è quello di abbattere le barriere non solo per facilitare gli spostamenti da una parte all’altra della casa o della città, ma anche e soprattutto per consentire l’interazione sociale tra individui appartenenti a una stessa comunità e favorire lo scambio inter-generazionale. Il 2012 è stato l’anno europeo per l’invecchiamento attivo, che per definizione include la solidarietà tra generazioni. L’evoluzione sociale ha comportato delle fratture, ma per garantire un inserimento, o un re-inserimento, degli anziani è fondamentale riallacciare i rapporti tra tutte le fasce d’età. La Commissione europea annovera tra i suoi obiettivi la sensibilizzazione dell’opinione pubblica sul valore dell’invecchiamento e l’abbattimento di barriere architettoniche e di pregiudizi legati all’età, tramite conferenze, campagne e ricerche a livello europeo, nazionale e locale.

Ma sebbene sia molto efficace una volta realizzato, anche il co-housing in partenza presenta dei limiti: essendo un modello elettivo infatti bisogna prima di tutto mettere d’accordo le tante persone che andranno a vivere sotto lo stesso tetto. Dopo aver raggiunto un accordo tra i futuri inquilini, si stima che i lavori di costruzione durino cinque o sei anni – tempistiche che non rendono immediato l’impatto sulla comunità e sulla vita degli anziani. In Italia poi c’è un problema ulteriore: la maggior parte delle case sono di proprietà, e chi possiede un immobile difficilmente vuole liberarsene per costruirne un altro, sia per questioni economiche, sia perché ci si aspetta che le persone invecchino a casa propria.

Francesco Cocco spiega che la sostanza di un abitare sociale ideale, a prescindere dalla forma in cui questo viene tradotto, deve includere tre costanti fondamentali: la casa, adeguata alle necessità della persona; la comunità, quale fondamentale sostegno della persona anziana; i servizi, come ad esempio quelli di pulizia. Solo dove siano presenti queste condizioni è possibile che ci sia un invecchiamento attivo. In alternativa esistono modelli abitativi di natura non elettiva, in cui gli inquilini non devono “scegliersi” a vicenda. Un esempio sono le “viviendas dotacionales”, promosse ormai da dieci anni dal comune di Barcellona, residenze per persone anziane autosufficienti costituite da appartamenti di circa 45 metri quadrati e provviste di servizi comuni e di quartiere.

L’abbattimento delle barriere non è circoscritto soltanto allo spazio abitativo, ma anche al quartiere e alla città intera. Con “catena di accessibilità” si intende il collegamento che permette di svolgere un’attività quotidiana in casa propria così come in qualsiasi altro punto del quartiere o della città. Prendiamo il semplice esempio dello sfamarsi: la persona anziana che voglia prepararsi il pranzo deve poter andare a fare la spesa, comprare le materie prime, tornare a casa, e mettersi a cucinare. Se nel tragitto casa-mercato si presenta una qualsiasi interruzione – non funziona l’ascensore, o c’è un gradino che non permette di accedere al mercato – non viene rispettata l’autonomia della persona anziana, che si trova così impossibilitata a svolgere un’azione che dovrebbe essere scontata.

La politica italiana degli ultimi decenni non si è mai mossa per cambiare la visione nei confronti della popolazione anziana, che gli ultimi governi ha relegato sempre più a un ruolo passivo e marginale. Si pensi anche alle politiche per la residenza pubblica – il “piano casa” – che doveva favorire l’edilizia sociale e si è trasformato invece in un piano per la ristrutturazione di interni.

“C’è una grande difficoltà a proiettarsi nella fase dell’invecchiamento. La persona over cinquanta non si domanda ‘come invecchierò?’, non pensa al suo processo di invecchiamento”. Per Cocco è questa la lacuna più grave da colmare nella nostra cultura e su cui bisogna iniziare a costruire le fondamenta di una politica integrata che includa l’aspetto medico, architettonico e sociale dell’intera questione.

Ageing Equal, ad esempio, è una campagna globale che solleva le coscienze sui diritti degli anziani e che nelle sue dieci settimane di attività (dal 1° ottobre al 10 dicembre 2018) si dedica a un tema specifico: invecchiamento e genere, invecchiamento ed etnia, invecchiamento e migrazioni. In Danimarca il programma “Life Long Living” favorisce l’interazione tra i cittadini anziani e la comunità cittadina attraverso la prevenzione e la promozione della salute – nonché proiezione di se stessi nell’età della vecchiaia – piuttosto che su soluzioni compensatorie. “In Italia, a livello nazionale, non c’è questa coscienza,” spiega Cocco, “Anzi, con il governo attuale si sta tornando indietro perché sembra che l’anzianità implichi necessariamente disabilità. Lo stesso approccio del ministero della Disabilità la dice lunga, perché pone il focus sul problema, sulla cura, anziché sulla prevenzione. Un conto è dire che ci si occupa dei disabili, un altro è proporre soluzioni per garantire una vita attiva alle persone con limitazioni funzionali. Un approccio non molto contemporaneo, né in linea con quello che dice l’Unione Europea”.

I limiti fisici possono sopraggiungere in qualunque momento della vita, anche solo temporaneamente – si pensi banalmente a una vittima di incidente stradale che sia costretta a usare le stampelle per qualche mese. Anche per questo motivo è importante cambiare prospettiva in tal senso, e non pensare alla disabilità come a una categoria a se stante estranea alla realtà dei “normodotati”.  La creazione di un ministero per le Disabilità ha suscitato il disappunto di Aniep (l’Associazione nazionale per la promozione e la difesa dei diritti delle persone disabili), perché “ghettizza la categoria”, facendo sì che la persona disabile non venga considerata uguale agli altri. “Questo governo sta alzando delle barriere culturali, che sono molto peggio di quelle fisiche e architettoniche contro cui ci battiamo ogni giorno”, è il commento a Repubblica di Andrea Silvestrini, vicepresidente di Aniep (l’Associazione Nazionale per la promozione e la difesa dei diritti delle persone disabili). In Italia era stata avanzata una proposta di legge sull’invecchiamento attivo (la n°3538), improntata all’inclusione sociale degli anziani, per esempio coinvolgendoli in attività di volontariato. Tuttavia, la proposta rimane in stallo dal 2016.

Lo sviluppo di nuovi modelli abitativi e architettonici è soltanto una parte della risposta all’invecchiamento della popolazione, che va integrato con una cultura consapevole e attenta al valore di tutte le persone della comunità. Da un lato ci sono gli anziani di oggi, legati al proprio ambiente e alla propria casa, che spesso è quella in cui hanno vissuto per tutta la loro vita ed è quindi costellata di ricordi, memori e affetti, dall’altro ci sono gli anziani “del futuro”, che non potranno più essere soltanto al centro di una politica di emergenza, ma dovranno essere attori protagonisti di un invecchiamento attivo intergenerazionale.

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