Quanto conta il cambiamento climatico nell’insorgere di nuove guerre? - THE VISION

È ormai da oltre un decennio che il rapporto tra cambiamento climatico e conflitti occupa un posto di notevole importanza nel dibattito sulla sicurezza globale. Un aumento delle temperature, una conseguente variazione nei ritmi dei periodi di siccità e inondazioni, o ancora l’innalzamento del livello del mare nel caso di comunità costiere, comportano gravi sconvolgimenti socio-economici, che a loro volta possono esacerbare tensioni preesistenti, o costituire la miccia definitiva per lo scoppio di contrasti latenti.

Il caso della guerra civile siriana, in questo senso, è emblematico: sebbene lo scoppio delle ostilità tra il regime di Bashar al-Assad e la popolazione civile non sia direttamente imputabile al lungo periodo di siccità prolungata che ha interessato il Paese tra il 2006 e il 2011, questo ha comunque portato migliaia di abitanti a migrare delle zone rurali del nord-est nelle città, ingrossando le fila di una classe urbana sempre più schiacciata dalle politiche neoliberiste, o pseudo tali, del regime.

Il cambiamento climatico può quindi essere la causa di nuovi conflitti? “Può diventarlo” spiega a The Vision Vittorio Emanuele Parsi, professore di Relazioni internazionali presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e direttore di ASERI, l’Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali. “Nel caso siriano, non si può dire che la siccità prolungata sia stata una causa diretta della guerra civile, ma ha comunque contribuito al precipitare della situazione.”

Il Sudan è devastato da una guerra civile che si trascina a fasi alterne ormai da mezzo secolo. Lì le zone desertiche si sono estese di 100 chilometri verso sud, andando a inghiottire aree un tempo fertili. Per una popolazione che per il 70% vive dei frutti della terra che coltiva, una prolungata siccità può costituire una minaccia reale alla propria sopravvivenza. La lotta per l’ultimo fazzoletto di terra rimasto, se da esso dipende il sostentamento di famiglie intere, può logicamente sfociare in una dimostrazione di forza. In Nigeria, dove il Sahara – in maniera analoga al caso sudanese –inghiotte le zone meridionali più verdi con un ritmo di 600 metri l’anno, gli allevatori di bestiame del nord del Paese e gli agricoltori si contendono ormai da anni i restanti appezzamenti di terreno fertile.

I cambiamenti climatici degli ultimi anni hanno creato una scarsità di risorse in Paesi il cui sostentamento dipende in larga parte dall’agricoltura. Il rapporto della FAO del 2017, The State of Food Security and Nutrition, ha rilevato come la fame sia una piaga in aumento, soprattutto nell’Africa subsahariana, nell’Asia occidentale e in quella sud-orientale. Tale tendenza sarebbe stata innescata, secondo la pubblicazione, dai conflitti in corso e dagli stress climatici che queste aree devono sopportare. Ciò implica un circolo vizioso: cambiamenti atmosferici comportano maggiori tensioni sociali, che tendenzialmente portano a conflitti, i quali risultano in una maggiore scarsità di risorse – generando, in ultima analisi, una continua lotta per le poche fonti di sostentamento rimaste.

Esistono molti altri modi in cui i mutamenti del clima possono portare a situazioni di tensione: sconvolgimenti ambientali, siano essi inondazioni, periodi di siccità, incendi, tendono a provocare lo spostamento di flussi considerevoli di individui, se questi hanno i mezzi per migrare, ovviamente. Si è ricordato il caso siriano, ma la tendenza è di più ampia portata: un recente studio di Wolfram Schlenker, Professore presso la facoltà di Relazioni Internazionali della Columbia University, ha rilevato che, basandosi semplicemente sulle tendenze dell’aumento termico dettato dal cambiamento climatico, il flusso di migranti diretti verso l’Europa è destinato a triplicare entro la fine del secolo. Tale dato non tiene conto di eventuali sconvolgimenti politici ed economici nelle stesse aree. L’effetto dei flussi migratori sulla stabilità socio-economica di un Paese è ormai assodato, e la percentuale di persone spinte a migrare dal proprio Paese di origine per ragioni climatiche non può che aumentare in futuro, in uno scenario in cui la ricerca di un clima più favorevole è destinata a diventare una delle principali cause di spostamento. Un nuovo report della Banca Mondiale, pubblicato oggi, prevede che entro il 2050 oltre 140 milioni di individui –nell’Africa sub-sahariana, in Sud America e nell’Asia meridionale – dovranno reinsediarsi per effetto del cambiamento climatico.

Proprio ieri, in vista del World Water Day del 22 marzo, l’Onu ha presentato a Brasilia un rapporto sulle acque mondiali, secondo cui entro il 2050 la carenza d’acqua interesserà, per almeno un mese all’anno, 5 miliardi di persone, pari alla metà della popolazione mondiale stimata per quella data. Pensiamo soltanto allo stress idrico a cui sono sottoposte aree come il bacino del fiume Giordano, tra Israele e Palestina. Qui l’accesso alle fonti idriche è, fin dai primi insediamenti sionisti all’inizio del Novecento, un nodo critico del conflitto israelo-palestinese. O all’area del Nilo, dove la Grand Ethiopian Renaissance Dam, diga idroelettrica da 1,7 chilometri sul Nilo azzurro, voluta dal governo etiope e in fase di completamento, minaccia l’approvvigionamento idrico dell’Egitto. Il presidente al-Sisi ha già fatto sapere di essere pronto a difendere gli interessi nazionali del proprio Paese, e fin dai primi mesi di costruzione, l’opera è stata al centro di tensioni tra Egitto, Etiopia e Sudan.

Il cambiamento climatico porta a un innalzamento delle temperature, il che a sua volta provoca un’intensificazione del ciclo idrologico, aumentando l’evaporazione dell’acqua. Ciò significa: precipitazioni più ingenti e più violente in zone caratterizzate da climi piovosi e, allo stesso tempo, più siccità nelle zone più aride del globo. Se l’acqua è da sempre una risorsa strategica fondamentale nel determinare lo sviluppo di conflitti, è facile immaginare come il cambiamento climatico possa portare a un esacerbarsi delle tensioni dove questa è contesa.

Già uno studio del 2009, Warming increases the risk of civil war in Africa, aveva confrontato dati storici sulle variazioni delle temperature e l’insorgenza di tensioni nell’Africa subsahariana: un’escursione termica dell’1% corrisponde, secondo la pubblicazione, a un aumento del 4.5% delle guerre civili nello stesso anno, e dello 0.9% in quello successivo. Basandosi su 18 diversi modelli climatici, gli autori del paper prevedono che entro il 2050 il numero dei conflitti armati nella ragione salirà del 54%, per l’effetto economico degli sbalzi climatici su società prevalentemente agricole.

Più di recente, un’analisi del Centre for Climate and Security del giugno 2017, intitolata Epicenters of Climate and Security: The New Geostrategic Landscape of the Anthropocene, aveva individuato 12 epicentri di rischio climatico, destinati a causare tensioni internazionali. Tra questi, il rischio che l’acqua da semplice risorsa strategica diventi un’arma – come successo nel caso della diga di Mosul e dello Stato Islamico, che minacciava di demolirla – o in Israele, dove la gestione dell’acqua è da anni un’importante strumento nel mantenimento dell’occupazione in Cisgiordania. Un altro rischio per la sicurezza globale è lo scioglimento della calotta polare artica: la Russia ha già riaperto alcune basi militari risalenti all’epoca sovietica e ne ha istituite di nuove, ha commissionato una nuova flotta di navi rompighiaccio, accelerando di molto il processo di militarizzazione dell’area in atto dal 2014. Ciò è stato possibile per lo scioglimento sempre più rapido della calotta polare artica. Il Canada ha risposto a tono, commissionando la costruzione di due nuove rompighiaccio militari. Ancora una volta, è evidente come i mutamenti del clima ridefiniscano il panorama della sicurezza globale.

Mentre la città di Cape Town si avvicina al Giorno Zero, ovvero il momento in cui la popolazione urbana rimarrà senz’acqua, diventa sempre più evidente come il cambiamento climatico sia ormai anche una questione politica, da affrontare collettivamente e a livello transnazionale. Nell’era dell’Antropocene, le variazioni atmosferiche causate dall’uomo diventano una variabile fondamentale nella definizione degli equilibri tra Stati. E se il rapporto tra cambiamento climatico e l’incidenza di nuovi conflitti non è ancora stata accettato in maniera univoca dal mondo accademico, la relazione, più o meno diretta, esiste, e condizionerà le agende di politica estera negli anni a venire.

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