Se il cinema è diventato Cinema lo dobbiamo a George Méliès - THE VISION

Certe cose tendiamo a darle per scontate: il cinema è una di queste. Siamo talmente abituati a rapportarci con quest’arte sin da quando eravamo piccoli che non ci rendiamo conto del fatto che è una scoperta davvero recentissima, che ha poco più di un secolo. Eppure sono cambiate molte cose dal quel treno dei fratelli Lumière che fece scappare gli spettatori in sala. Oggi cose come il montaggio, la regia e gli effetti speciali sono assolutamente normali, ma non è sempre stato così. Le storie complesse, piene di punti di vista, realtà parallele, immagini fantastiche che oggi costituiscono il pane quotidiano della cinematografia, sono tutte frutto dell’uomo che per primo si tuffò nella sperimentazione assoluta, contro ogni pronostico negativo rispetto all’arte che in quell’epoca sembrava solo un vezzo passeggero. George Méliès, il più coraggioso di quei tempi nel campo dell’immagine, era un illusionista parigino che alla fine del Diciannovesimo secolo diede inizio al cinema per come lo conosciamo oggi. Fu solo un colpo di fortuna, si potrebbe obiettare: ma è vero pure che la fortuna aiuta gli audaci.

Alla fine dell’Ottocento, grazie agli esperimenti dei fratelli Lumière, il cinema cominciava a muovere i suoi primi passi, mentre Méliès si districava tra gli spettacoli di prestigio. Quando ebbe l’occasione di vedere con i suoi occhi quell’oggetto stupefacente, il cinematografo, non rimase per nulla indifferente all’impulso creativo di quello spettacolo: provò a convincere i fratelli Lumière a vendergliene uno, ma loro si rifiutarono. Poteva forse arrendersi davanti all’opportunità così allettante di mettere a frutto le proprie conoscenze di illusionista per un semplice no? La risposta, ovviamente, è negativa: Méliès se ne fece allora costruire uno dal suo ingegnere e, dopo un’iniziale esplorazione di quell’aggeggio completamente nuovo, trovò in fretta la sua strada.

L’immaginario fantastico dentro al quale era solito muoversi combaciava perfettamente con le potenzialità della nuova arte visiva che avrebbe conquistato il secolo successivo. Fu Escamotage d’une dame chez Robert-Houdin, nel 1896, il primo corto di appena un minuto e diciotto secondi che conteneva in sé la prima piccola rivoluzione di Méliès: una donna sparisce dall’inquadratura. Sembra una cosa da nulla, e invece era un’idea a dir poco geniale. Il prestigiatore parigino, infatti, aveva capito che fermando l’immagine e facendola ripartire senza cambiare lo scenario circostante, l’effetto era sorprendentemente efficace. Méliès con quella trovata aveva appena messo in atto il primo vero momento di regia ed era successo tutto per caso, mentre riprendeva una scena in cui era presente una donna. La camera si era inceppata e nel riprendere l’immagine successiva il regista si era accorto che era “apparsa” al suo posto una carrozza. L’intuizione del montaggio lo portò a ingegnarsi sempre di più su questo fronte: se poteva sparire una donna e riapparire sullo stesso piano, perché non farlo anche con oggetti, attori, e tutto quello che gli passava per la testa.

Nell’anno successivo, entusiasta dei suoi esperimenti, decise di costruire il primo teatro di posa, una sorta di mix tra uno studio fotografico e un palcoscenico teatrale. Era il luogo perfetto per assecondare ogni sua follia creativa: ci girò circa cinquecento film, anche se più della metà non è sopravvissuta all’incendio che poi distrusse tutto. Nonostante la quantità enorme di materiale perduto, ciò che rimane della sua produzione è decisamente esemplificativo della portata della sua innovazione. Tra la sue opere più famose – citate da tantissimi altri registi e rimaste aggrappate all’immaginario collettivo della genesi del cinema – sicuramente ci sono Le Voyage dans la lune del 1902 e Voyage à travers l’impossible del 1904 (oltre a Le manoir du diable del 1896 che è considerato il primo film horror della storia del cinema). La prima cosa che viene in mente riguardando questi cortometraggi – che oggi sembrano davvero brevi, ma che per quei tempi richiedevano uno sforzo immane – è per dare vita a scenografie e ambientazioni simili bisogna essere quanto meno un po’ folli. E in effetti, le ipotesi plausibili sono due: o George Méliès non si rendeva conto della straordinaria complessità del suo lavoro, oppure era pazzo.

Probabilmente a fare da traino alla creatività spavalda del prestigiatore parigino era un mix di questi due elementi. Non si spiega altrimenti come gli sarebbe venuta in mente l’idea creare una scenografia in cui la sua testa viene piazzata su un tavolo e gonfiata fino a diventare enorme, con un effetto surrealista e comico notevole, ma allo stesso tempo anche abbastanza inquietante. Sono immagini sgranate, a scatti, che oggi ci risultano affascinanti e misteriose proprio per il fatto di essere così difficili da interpretare, sfocate ma allo stesso tempo capaci di comunicare l’entusiasmo che stava dietro alla loro composizione. I cortometraggi di Méliès, infatti, trasudano il bisogno di sperimentare in libertà in una fase ancora primordiale del cinema. Non c’è un preciso criterio se non quello di osare, aggiungere, andare oltre l’immagine, tradurre in pellicola una dimensione onirica e inesplorata. La fortuna di questo regista è stata forse proprio quella di trovarsi davanti carta bianca, potendo permettersi d’essere pioniere in un campo artistico che da lì a breve sarebbe diventato fondamentale per il secolo che cominciava.

La ricchezza delle immagini create da Méliès, espressa attraverso costumi, scenari, effetti speciali – sirene che galleggiano tra i pesci, direttori d’orchestra che si moltiplicano a suonare mille strumenti diversi – è la prova che non basta possedere un mezzo avanguardistico come il cinematografo per fare della vera e propria arte: servono l’intuizione e il coraggio di far incontrare due mondi che ancora erano sconosciuti l’uno all’altro, come il cinema e l’illusionismo.

Avere il coraggio e la forza di uscire al gregge non è scontato, così come non lo è rompere schemi già decisi e imposti come irreversibili. Quando la fiducia in se stessi prevale sul timore della sconfitta, essere voci fuori dal coro diventa a volte un’occasione per lasciare un segno nella storia. Il racconto della vita di questo personaggio rientra nel progetto “Born Confident” sviluppato da THE VISION in collaborazione con Volkswagen, per T-Roc.

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