Non è Trudeau oro quello che luccica - THE VISION

Vi ricordate quando nei libri di storia si parlava di “un forte senso di malcontento che serpeggiava nell’aria” prima di una fragorosa catastrofe? Ecco, questo è più o meno il senso che si ha dell’attuale momento storico.

Individui come Donald J. Trump e Marine Le Pen sfidano i sondaggi riuscendo a imporsi come candidati credibili (e talvolta persino vincenti) per delle elezioni democratiche. Un periodo da alcuni definito “distopico”, a riprova di una certa riluttanza ad accettare del tutto la situazione. Una sorta di escapismo, più o meno inconscio, che porta a ricorrere alla drastica separazione di tipo manicheo tra politici paladini del bene e più o meno letterali incarnazioni dell’Anticristo.

Provate a pensare se nello scenario apocalittico attuale arrivasse, baldo e fiero sul suo bianco destriero, tale Justin Trudeau, il primo ministro del Canada. Un uomo che pare assemblato per incarnare tutte le caratteristiche non solo del politico ideale, ma dell’uomo perfetto. Femminista, molto sensibile alle istanze sociali, aperto e tollerante nei confronti del fenomeno migratorio. Un elenco non esaustivo dei suoi punti di forza, che nella teoria dovrebbero essere prerogative piuttosto standard per un candidato progressista, ma di fronte alle quali oggi si faticano a trattenere un senso di meraviglia e la considerazione interiore che “mmm, quest’uomo è capitato in politica, ma forse il suo spirito etico e un basilare senso di umana decenza non sono ancora stati intaccati. Incredibile!”.

Purtroppo non è esattamente così. Certo, il tanto osannato primo ministro canadese, paragonato ad altri personaggi che razzolano sulla scena politica internazionale, è un cucciolo di Labrador, ma a scavare un poco più in profondità ci sono almeno due cose che non tornano. Inezie, roba da poco.

Primo: quando non è impegnato a coccolare cuccioli di panda, il nostro principino riesce anche a trovare il tempo di concludere accordi di vendita di armi ai Sauditi del valore di 12 miliardi di dollari. Un particolare che, converrete, cozza un pochino con le posizioni di Trudeau nell’ambito dei diritti umani. L’accordo di vendita riguarderebbe veicoli corazzati che secondo varie testimonianze video sono stati in passato utilizzati dalle forze governative saudite per reprimere le minoranze sciite presenti sul territorio. I veicoli nei filmati non erano di manifattura canadese, ma è lecito pensare che il carico inviato da Ottawa probabilmente finirebbe impiegato per operazioni dello stesso tipo. Magari, e qui sto tirando a indovinare, in Yemen, dove da diversi anni è in corso una guerra civile (in realtà una guerra proxy tra Iran e, guarda caso, l’Arabia Saudita) e la popolazione locale non se la passa proprio benissimo sul versante dei diritti umani. Il primo ministro canadese avrebbe poi commentato così l’affare, parlando alla Camera dei comuni:«Dobbiamo mostrare al mondo che quando il Canada conclude un accordo, mantiene la parola». Una giustificazione inoppugnabile, non c’è che dire.

C’è poi un’altra enorme zona d’ombra dietro la luccicante facciata di Trudeau. Mi riferisco alle sue politiche ambientali. Va detto, a discolpa del governo di Ottawa, che sono stati proprio alcuni diplomatici canadesi e l’attuale ministro per l’Ambiente e il cambiamento climatico, Catherine McKenna, a insistere durante i negoziati degli Accordi di Parigi per fissare il tetto massimo di aumento termico a 1.5°C entro il 2100. Il problema subentra se si inizia a considerare che i giacimenti petroliferi dell’Alberta contengono un quantitativo di petrolio estraibile pari a 173 miliardi di barili e che tale quantitativo è già parzialmente stato estratto e commercializzato dal Canada, rendendo la soglia del grado e mezzo di aumento termico annuo molto più vicina di quanto si potrebbe pensare.

Ma come ha detto il magnanimo Trudeau in occasione del forum “CERAweek” di Houston, tenutosi a marzo, «nessun Paese troverebbe 173 miliardi di barili di petrolio nel proprio territorio e li lascerebbe lì». Una frase non coerente con le sue abituali prese di posizione in tema di gestione dei combustibili fossili e del cambiamento climatico, ma che non gli ha impedito di incassare la fragorosa standing ovation della platea texana.

Non mi fraintendete: avere figure politiche come Trudeau, Macron o Angela Merkel (se ci limitiamo all’ambito delle politiche ambientali) a fare da contrappeso a uomini come Trump dovrebbe essere un motivo di sollievo per la maggior parte di noi. L’ultima riprova è arrivata quando all’annuncio da parte del presidente statunitense del ritiro del proprio Paese dagli Accordi di Parigi, i personaggi sopracitati hanno tutti, più o meno esplicitamente, espresso il proprio dissenso.

Certo, il suo è uno dei governi più equilibrati al mondo per numero di incarichi assegnati a donne e a minoranze etniche e le sue posizioni in merito all’emergenza migratoria sono ben più pregevoli rispetto a quelle del suo vicino meridionale. Ancora più apprezzabili sono le sue iniziative a supporto delle comunità LGBTQ (iniziative la cui incidenza viene lievemente intaccata nel momento in cui si vendono armi a uno dei Paesi meno LGBTQ-friendly al mondo). Justin Trudeau, però, non è il principe azzurro venuto a salvarci dall’Apocalisse Trump, dalla nebulosa Putin o dalla supernova di un possibile ritorno di Berlusconi

Dobbiamo restare lucidi davanti alle dinamiche contemporanee e trattenerci dall’idealizzare determinate figure politiche, smettendo di chiudere ostinatamente gli occhi su eventuali mosse di dubbia moralità com’è stato fatto con Trudeau. Considerato che questo consiglio arriva da una persona che ieri sera stava per spendere settanta euro per questo, potete essere certi della totale obiettività delle mie parole.

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