Perché per avere pluralismo dobbiamo accettare il compromesso - THE VISION

Le prime elezioni di cui ho memoria risalgono al 2001, quando Berlusconi concorreva con Rutelli per succedere a un governo Prodi abbattuto da fuoco amico. Bertinotti aveva revocato la fiducia del suo gruppo parlamentare, ufficialmente perché Prodi non aveva mantenuto l’accordo sulla riduzione del lavoro a 35 ore settimanali, forse nella speranza di racimolare qualche voto in più alle imminenti elezioni europee. Il governo cadde per un solo voto e, dopo una breve parentesi dalemiana, Berlusconi vinse le elezioni e rimase a Palazzo Chigi per il tempo più lungo della nostra storia Repubblicana. Tutte queste cose non potevo saperle, avevo 9 anni e ricordo solo che il giorno dopo andai a scuola un po’ stranita perché tutti intorno a me sembravano avere il muso lungo.

Era la prima volta che la sinistra consegnava il Paese nelle mani di Silvio Berlusconi per l’incapacità di giungere a un accordo con se stessa, e mantenerlo. Non sarà nemmeno l’ultima, perché compromesso, dopo la fine della prima Repubblica, è diventata una brutta parola. Le forze politiche, persino quelle con una buona base di valori comuni, si dichiarano ripugnate all’idea di giungere a miti consigli tra loro. Il motivo per cui questo atteggiamento sia considerato edificante non è chiaro, eppure genera consenso.

Il giurista Hans Kelsen, autore della costituzione austriaca del 1920, in Essenza e Valore della Democrazia, elabora un elogio proprio del bistrattato accordo tra parti politiche. Kelsen fa notare come lo scopo dell’intero processo democratico parlamentare sia il raggiungimento di una mediazione tra i diversi interessi delle parti sociali. Solo in quest’ottica, sostiene, hanno senso gli stessi concetti di minoranza e maggioranza: nel partecipare al gioco democratico, entrambi i gruppi sottoscrivono il tacito accordo di discutere e replicare, argomentare e controbattere, per “Mettere in second’ordine ciò che separa in favore di ciò che unisce”. Giungere a una sintesi, dunque, negoziare le proprie istanze con gli altri per arrivare a un buon risultato per l’intera comunità. Questa è la base e, allo stesso tempo, lo scopo della democrazia. Dove non c’è compromesso, non c’è pluralismo: solo la voce di uno che parla per tutti.

Hans Kelsen

Questa campagna elettorale è invece espressione di una cultura politica del “noi” contro di “loro”, del partito come marchio di fidelizzazione, del “o con me, o contro di me”. Se vogliamo una democrazia parlamentare rappresentativa e plurale, invece, dobbiamo anche accettare che le forze politiche possano e debbano dialogare tra loro. Delle due, l’una. Ma nessun partito sembra voler andare in questa direzione.

I Cinque Stelle hanno identificato da subito il loro nemico nel PD, trattando Forza Italia come il male minore, a volte ignorando, a volte strizzando l’occhio, alla Lega di Salvini. Dal loro punto di vista, una tattica comprensibile; basando il loro successo sull’onda della post-politica, dove destra e sinistra non esistono, possono permettersi di ammiccare alle diverse anime della base. Con dichiarazioni e azioni contraddittorie allargano il loro bacino elettorale, eliminando lo spinoso problema del definire una linea ideologica. Basti pensare al caso di Macerata, sul quale il leader Di Maio si è espresso in termini vaghi, senza collocare la vicenda su un piano socio-politico, e  Alessandro di Battista, dichiarando di non voler esprimere opinioni per evitare strumentalizzazioni, scrive allo stesso tempo su Il Blog delle Stelle che “coloro che hanno responsabilità politiche” avrebbero il solo dovere di tacere.

Per la sinistra, al contrario, che ha dalla sua una storia identitaria e ideologica molto forte, questo discorso non ha alcun senso: Il PD, nell’abbaglio di un 40% che fu, non è stato in grado in questi anni di trattare efficacemente con le forze più a sinistra di sé, le quali, per presunta purezza o ottusità, hanno distrutto l’unico partito con cui avrebbero avuto una speranza di realizzare i loro progetti. Rinunciando a un accordo, la sinistra rinuncia alla possibilità di contare qualcosa nel prossimo esecutivo e, de facto, rafforza le destre. Un suicidio non solo elettorale, ma anche ideologico.

E infatti, oggi, nonostante le apparenti divergenze, la destra a guida Berlusconi si presenta in una coalizione che arriva quasi al 40%, con l’anima di centro di poco maggioritaria rispetto a quella estremista di Lega più Fratelli d’Italia.  È forse questo il compromesso di cui parlava Kelsen? Senza voler fare un processo all’intenzione, la storia ci insegna di no. Presentarsi in uno schieramento unico è una tattica elettorale furba, ma né Salvini, né la Meloni, né Berlusconi hanno finora cercato una convergenza sui temi; è dunque difficile immaginare come possano collaborare dal 5 febbraio in avanti, considerato che i singoli partiti hanno percentuali ancora basse e ciascuno di loro sembra aver grandi aspirazioni da leader.

Ma neppure con una destra così malandata, né i 5 Stelle, sedicenti oppositori di un establishment corrotto e corruttore, né la sinistra, hanno mostrato un cenno di volontà di dialogo nell’ottica del bene comune. E così, dal famoso streaming del 2013 a oggi, tutti i partiti hanno incoraggiato, e continuano a farlo, la rinascita della fenice di Arcore.

Eppure ripensando all’era del Cavaliere vengono in mente almeno una decina di motivi per cui verrebbe voglia di accordarsi con altri pur di non rivederlo a Palazzo Chigi: una serie di leggi ad personam varate per svicolare dai procedimenti che lo coinvolgono, una condanna per frode fiscale e falso in bilancio, e cinque procedimenti pendenti, tra cui uno in cui è indagato per aver concorso alle stragi del ‘92 e ’93. Per non parlare del modo in cui ha lasciato il Paese, nel novembre 2011, quando una folla festante salutava il capitano abbandonare la nave che affonda: lo spread era ai massimi storici, il rischio di default  della terza economia europea preoccupava il mondo, e le grandi banche europee speculavano sui titoli del nostro Paese – anche grazie a quelle stesse agenzie di rating americane che pochi anni prima avevano contribuito a distruggere l’economia mondiale.

Alla luce di tutto questo, è bizzarro vedere come la sua figura stia venendo rivalutata, giustificata, addirittura accolta a Bruxelles per “rassicurare” della bontà delle sue proposte politiche. Ma se nemmeno l’idea di un Berlusconi (o chi per lui) spinge le opposizioni a reagire, è difficile immaginare cos’altro potrebbe farlo.

In Paesi con una tendenza al tripolarismo, come sono oggi l’Italia o la Germania, governare sulla base di un accordo tra parti politiche diverse, ma compatibili, è l’unica via per implementare un piano a lungo termine. Proprio come sosteneva Hans Kelsen, il sistema proporzionale è l’unico in grado di garantire questo risultato senza venire meno a una reale rappresentazione del popolo in Parlamento. Dobbiamo però cambiare la visione che ne abbiamo, guardando a esso non più nell’ottica di una polarizzazione, ma in quella di un parallelismo. I voti ottenuti dai candidati dei diversi partiti vanno affiancati, e non sottratti gli uni dagli altri, perché tutti, in ultima istanza, sono lì per la stessa ragione: collaborare alla realizzazione del benessere generale. La maggioranza e la minoranza devono rafforzarsi a vicenda puntando al risultato complessivo e dimenticando gli interessi del proprio gruppo.

Lo so, magari Kelsen potrebbe passare per un ingenuo: se sperare che un tale accordo si realizzi tra parti simili è già ottimistico, immaginarlo tra fazioni contrapposte sembra utopia. Eppure, aveva ragione. Eppure, in altri Paesi succede. Perché in Italia no? Perché la politica raramente ha guardato più avanti dei soli 3 o 4 anni di legislatura. Come sostiene Mario Capanna nel suo “Noi tutti”, se l’ardire di pensiero ruota intorno alla conquista della sedia, la politica diventa solo un modo di accontentare il cittadino senza immaginare un percorso della società verso il futuro.

Kelsen sarà stato anche naif, ma sarebbe bello se, per una volta, fossimo noi a pretendere dai nostri politici che siano loro a guidarci, e non i sondaggi sulle nostre opinioni a guidare loro. Potremmo farlo, se solo superassimo l’avversione per l’accordo politico, per la democrazia, e ne chiedessimo uno concreto, affidabile e lungimirante, che vada oltre le promesse elettorali e disegni finalmente un’idea di sviluppo per il Paese.

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