Il partito della realtà - THE VISION

C’è mai stata una campagna elettorale tanto simile a un saldo di fine stagione? Sarà che Berlusconi non ha più niente da perdere; sarà che il M5S ha più voglia di lanciare promesse assurde che di vincere (col rischio poi di doverle mantenere); sarà magari anche la stagione, la depressione post-natalizia; proprio mentre stiamo lentamente elaborando la delusione per non aver trovato sotto l’albero quello che desideravamo, ecco che arriva Di Maio con uno scrigno pieno di Reddito di Cittadinanza. Ma da dietro spunta Berlusconi e promette di togliere tasse per sei anni a chiunque ci assuma a tempo indeterminato, se le elezioni le vince lui. Quanto a Pietro Grasso, lui di chance di vincere ne ha ben poche: ed è un peccato, sennò potremmo tornare all’università gratis, magari riavere indietro i nostri vent’anni.

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Intruppato in mezzo a questi favolosi personaggi da presepe, Matteo Renzi sembra l’imbonitore meno convinto. Si intuisce che anche lui vorrebbe partecipare al gioco; abolirci, che so, il canone in bolletta. Ma si trova inchiodato a un ruolo che non ha mai incarnato volentieri, ma che è il fardello di ogni leader italiano di Centrosinistra: il rappresentante del Principio di Realtà.

Proprio lui, che appena ieri era il più giovane: proprio a lui ora tocca il ruolo antipatico dell’adulto che fa due conti e scrolla la testa: mi dispiace, ma non ce lo possiamo permettere. Salvini vuole la flat tax? Un bel regalo ai ricchi, ma con che soldi? I Liberi e Uguali vogliono l’università gratis per tutti? Non sarebbe poi un’idea così fantascientifica, per esempio in Danimarca qualcosa del genere c’è, ma qui da noi manca la copertura (la Danimarca ci piace solo quando licenzia facile). Il Principio di Realtà, spiegava Freud, non è opposto al più infantile Principio del Piacere, ma ne è per così dire una versione più evoluta, modellata dalle stesse “pulsioni di autoconservazione dell’ego”: è come se per tutti noi venisse una specie di 7 gennaio della vita in cui capiamo che non possiamo alimentarci per sempre a torrone e pandoro. Dobbiamo in qualche modo accettare l’idea che esiste il diabete, esistono i lunedì, le tasse, i debiti e tutte queste cose orrende e insormontabili che compongono la dimensione chiamata realtà. Un momento del genere arriva persino per gli italiani, più o meno ogni otto/dieci anni: è l’unico momento in cui la sinistra ha qualche chance di vincere le elezioni. Peccato che dopo averle vinte non possa fare quasi nulla di sinistra.

Disclaimer: il grafico qua sopra è evidentemente un prodotto della campagna elettorale del PD (se vi è venuta un’improvvisa voglia di votare per loro, ha funzionato). Si tratta di un classico esempio di grafico a tesi, in cui una realtà complessa viene semplificata ad arte. Probabilmente qualche numero non torna; più in generale l’idea che il rapporto deficit/PIL dipenda unicamente dall’azione di governo è abbastanza ingenua. Nondimeno, è uno dei rari casi in cui vediamo il PD di Renzi rivendicare la storia del centrosinistra italiano, dall’Ulivo in poi. Prodi, D’Alema, Amato, Enrico Letta, Renzi e Gentiloni (ma anche Mario Monti) hanno avuto il merito storico di aver mantenuto un comunque mastodontico debito pubblico nei margini imposti dall’Unione Europea. Un risultato storico? Lo stabiliranno gli storici, e sappiamo che ci metteranno un po’. Ma nel frattempo possiamo osservare che non si trattava di un obiettivo di sinistra – di qualsiasi sinistra, da Bakunin a Marx a Proudhon giù fino a Keynes. Nessun filosofo o economista o militante di sinistra ha mai avuto come obiettivo primario il contenimento della spesa o del debito pubblico: è una battaglia che tradizionalmente si associa ai liberali, ai conservatori, in Germania ai centristi di cultura luterana così ben rappresentati da Angela Merkel. E allora perché la sinistra italiana si è trovata, più volte nella sua storia, in prima linea in questa battaglia?

Perché gli altri posti erano già occupati.

La sinistra italiana non è rigorista per inclinazione o per cultura; ma nella dialettica dei partiti italiani la posizione di chi spendeva e spandeva allegramente senza pensieri per il futuro era già assegnata ai partiti di centrodestra: nei goduriosi anni Ottanta alla Democrazia Cristiana e al suo alleato progressista e trendy, il Partito Socialista di Craxi. Non è un caso che il PCI di Berlinguer, bloccato all’opposizione, cominci a parlare di questione morale e di austerità. Non è nemmeno un caso che la fine della prima Repubblica coincida con un biennio di crisi (1992-93) in cui la sinistra post-comunista sembra a un passo dal prendere il potere: ad anticiparla nel 1994 è quel miliardario sorridente col sole in tasca, che promette a dispetto di ogni ragionevolezza un milione di posti di lavoro. Si chiama Silvio Berlusconi, e sin dalla sua prima discesa è chiarissimo qual è la metà del campo in cui gli piace giocare. La possiamo chiamare Destra, ma più nel profondo quello di Berlusconi è sempre stato il Partito del Principio del Piacere. Votami, e farò di te quello che ho fatto al Milan, quello che ho fatto a Canale5. Poteva il centrosinistra di Occhetto-D’Alema-Prodi rivaleggiare con le promesse del padrone dell’etere televisivo? In altri momenti storici la sinistra aveva avuto un immaginario rigoglioso: con le utopie, le rivoluzioni e i cosmonauti forse davvero nessuno aveva fatto sognare così tanto i lavoratori, almeno fino all’avvento della tv a colori. Ma a quel punto erano già gli anni ‘90, l’URSS si era dissolta come neve al sole, e in tutto il mondo la sinistra era in cerca di una nuova identità. In Italia c’era da rimettere a posto i conti e riagganciarsi all’Europa: era l’obiettivo di Prodi e D’Alema ed era meglio che niente. Dal 1996 in poi, più che di Sinistra sarebbe opportuno parlare di Partito del Principio di Realtà – soprattutto dopo la sofferta scissione del 1998, quando Prodi fu abbandonato dagli ultimi irriducibili sognatori del sol dell’avvenire e delle 36 ore lavorative, capeggiati da Fausto Bertinotti.

Il Principio di Realtà, ricordiamo, non è un avversario del Principio del Piacere: Freud sembra descriverlo più come un padre che se ne prende cura e appena può gli regala qualche soddisfazione. Allo stesso modo, la sinistra che fa quadrare i bilanci non è mai stata un vero nemico per Berlusconi, anzi: è stata fondamentale a tenerlo in forma per tutti questi anni non sempre piacevoli. Se Berlusconi ha potuto promettere la luna nel ‘94, nello ‘01 e nel ‘06, è grazie agli odiatissimi Amato, Ciampi, Visco, Padoa Schioppa, che al momento giusto arrivavano a salvare i conti e a porre le basi per una nuova trionfale campagna anti-oppressione-fiscale. Il centrodestra regala sogni, il centrosinistra interviene ogni cinque anni a salvare i conti e a perdere le elezioni successive. Più che schieramenti avversari, sembrano complementari. C’è un modo di sottrarsi a questo ciclo di euforia berlusconiana e depressione sinistrorsa? Il primo tentativo forse lo fece Bersani, nell’autunno del 2011, quando di fronte all’ennesimo tracollo economico si rifiutò di andare alle elezioni ed ereditare dall’ultimo governo Berlusconi un’Italia a rischio di default. Non voleva “vincere sulle macerie”, dichiarò, e il senso era piuttosto chiaro: se c’erano grossi e inevitabili sacrifici da imporre agli italiani, stavolta non li avrebbe imposti un governo di sinistra. Fu così che a palazzo Chigi andò Mario Monti, sostenuto inizialmente da una maggioranza che andava da Berlusconi al PD. Chi oggi critica Bersani per quella scelta compensa con un’abbondante dose di senno del poi una certa mancanza di fantasia: certo, nel 2012 Bersani avrebbe anche potuto andare al voto e vincerlo, ma poi chi avrebbe fatto calare lo spread? Chi avrebbe imposto una drastica riforma delle pensioni e l’aumento dell’IVA? E chi, a emergenza rientrata, avrebbe immediatamente perso il sostegno e la fiducia degli italiani, tanto rapidamente quanto la perse Monti? Quello di Bersani fu il primo serio tentativo di smarcare il PD dal ruolo di difensore del Principio di Realtà. Andò come andò.

Il secondo tentativo lo avrebbe fatto un paio di anni dopo proprio il giovane rottamatore di Bersani, Matteo Renzi. I conti nel frattempo erano migliorati (grazie a Monti), Berlusconi sembrava alla frutta – addirittura condannato ai servizi sociali! – così per un po’ Renzi tentò di accreditarsi come il nuovo uomo con il sole in tasca. Ma quando difendeva gli 80 euro in busta ai dipendenti, o il bonus agli studenti, in un certo senso aveva ragione: sembravano operazioni elettorali e in parte lo erano, ma erano anche finalmente operazioni di sinistra: una sinistra redistributiva e magari anche un po’ populista – ma perché la sinistra non dovrebbe esserlo? Perché deve sempre lasciare il campo a destra, o a quel neo-partito-del-piacere che è il M5S? Me lo sono chiesto tante volte.

Di solito mi sono risposto: perché non ci sono abbastanza soldi. Perché l’Europa non ce lo permetterebbe e non possiamo permetterci di abbandonare l’Europa, eccetera eccetera. Una risposta molto ragionevole. Ma appunto: perché dobbiamo sempre essere noi quelli ragionevoli?

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