One of Us svela cosa accade agli ebrei ultra-ortodossi che rinunciano alla loro religione - THE VISION

Ho vissuto a New York per circa un anno. L’appartamento dove abitavo, a South Williamsburg, distava due isolati dall’area che ospita una delle più grandi comunità ebree chassidiche del mondo. Ogni mattina, alla fermata della metropolitana di Marcy Avenue, condividevo la banchina insieme a una folla vestita di nero. Gli uomini con il lungo rekel, gli ingombranti shtreimel e gli immancabili payot, i lunghi boccoli lasciati crescere davanti le orecchie in accordo con un passaggio del Levitico. Le donne, con le gonne rigorosamente a metà polpaccio, i mocassini senza tacco e i capelli coperti da parrucche che sembravano essere state confezionate in serie, per via dei tagli e dei colori così simili tra loro. I due sessi non interagivano, eccezion fatta per le coppie sposate, che trascinavano con sé almeno tre o quattro figli, il vociare – in yiddish – era sommesso, ma costante. Nessuno mi ha mai rivolto la parola, se non quelle rare volte in cui, dovendo stampare un documento o acquistare del materiale di cancelleria, finivo in uno dei tanti negozi gestiti da chassidici. La totale chiusura della comunità e la rigida osservanza di precetti religiosi che, a un occhio laico, appaiono anacronistici, soprattutto in una metropoli occidentale, alimentava un sottobosco di colorite leggende e fantasiosi racconti che faticavano però a trovare una conferma nella quotidianità: i miei compagni di viaggio rimanevano delle presenze misteriose che più volte mi sono ritrovata a osservare con insistenza.

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La nascita della corrente ultra-ortodossa chassidica si deve al taumaturgo e kabbalista Baʻal Shem Tov, che nell’Europa dell’Est del Settecento creò un nuovo movimento all’interno dell’ebraismo ortodosso, fondato su un rinnovamento spirituale che pone le sue radici nella mistica ebraica, promuovendo la popolarizzazione della Kabbalah come un aspetto fondamentale della fede nelle comunità povere e illetterate. La corrente, pur generando una forte critica e opposizione da parte dell’élite dei rabbini, ebbe sempre più successo e si diffuse in Europa, Israele, Canada, Stati Uniti e Australia. Due secoli dopo, l’Olocausto decimò la comunità chassidica, e i superstiti ricominciarono la loro vita a Brooklyn, mossi dalla convinzione che, per ricostruire ciò che la Seconda Guerra Mondiale aveva loro tolto, occorreva proteggersi attraverso la costituzione di una comunità chiusa e severa.

Uno studio condotto nel 2012 dall’associazione filantropica UJA-Federation ha mostrato come la popolazione ebraica della città di New York sia tornata a crescere, assestandosi intorno a 1,1 milioni di persone, grazie all’incremento – definito “esplosivo” – della componente chassidica e ultra-ortodossa: i dati risalgono a cinque anni fa, ma se già allora il 40% degli ebrei newyorkesi si identificava come ortodosso e il 74% dei bambini ebrei rientrava in questa classificazione, è lecito dedurre che tali numeri siano ulteriormente aumentati. I dati emersi fanno da contraltare alla diminuzione nell’osservanza delle pratiche religiose da parte dei non-ortodossi, che sono restii ad auto-definirsi “ebrei” in senso stretto e si pongono all’estremo opposto di una stessa linea retta: da una parte coloro che si sentono profondamente credenti, attivi e impegnati, dall’altra coloro che, invece, stanno perdendo la fede.

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In un panorama così polarizzato, il documentario di Netflix One Of Us, girato da Heidi Ewing e Rachel Grady (le stesse del meraviglioso Jesus Camp) aggiunge un ulteriore elemento di riflessione sulla realtà ultra-ortodossa ebraica. La narrazione si focalizza sulle storie di Etty, Ari e Luzer, e sul tormentato e difficile percorso che decidono di intraprendere per uscire dalla comunità chassidica di cui sono membri: Etty, ha poco più di trent’anni, sette figli e un marito abusivo dal quale vuole divorziare. Nonostante sia vittima di stalking, minacce e molestie da parte dei parenti dell’uomo, Etty combatte una dura battaglia legale per l’affidamento dei figli, nonostante familiari e amici siano pronti a testimoniare contro di lei. Ari invece è un ragazzo di diciotto anni che, mosso dalla curiosità e dall’entusiasmo della tarda adolescenza, si rende conto di avere troppe domande senza risposta. Sebbene le regole della comunità gli impediscano di avere accesso a internet, scopre Google, e con esso Wikipedia: “È stato un dono di Dio”, ammette ancora incredulo davanti alla telecamera. Infine c’è Luzer, che ha abbandonato la comunità otto anni prima – divorziando dalla moglie e rinunciando ai due figli avuti con lei – per inseguire il suo sogno di diventare attore e trasferirsi a Los Angeles, dove vive in un camper e lavora come autista per Uber.

Heidi Ewing e Rachel Grady

Per la coppia di filmmaker Ewing e Grady il punto d’accesso all’universo degli ex-chassidici è stato l’associazione no profit Footsteps, che dal suo anno di fondazione – nel 2003, a opera di Malkie Schwartz, che a sua volta faceva parte della comunità ultra-ortodossa di Crown Heights – aiuta gli ebrei che vogliono abbandonare l’enclave chassidica, accompagnandoli nel non semplice viaggio di ridefinizione della propria identità. Finora Footsteps ha dato sostegno a più di 1.300 persone traghettandole, attraverso le reazioni spesso ostili e punitive di amici e parenti, verso un’istruzione che consenta loro una vita nel mondo laico, anche grazie a un’educazione ai ruoli di genere nella società moderna e al perfezionamento della lingua inglese.

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“I membri sono come degli immigrati, con la differenza che si tratta di immigrati nel Paese di cui sono ufficialmente cittadini”, spiega Lani Santo, direttrice dell’associazione. La metafora non è esagerata e riesce dipingere in maniera puntuale la situazione di chi inizia a dubitare dell’ortodossia, a porsi dei quesiti che non trovano risposta nelle regole da osservare. Il “sistema” che viene messo in discussione è un collaudato meccanismo basato su matrimoni combinati estremamente prolifici, un meccanismo che proibisce la socializzazione tra i due sessi (a meno che non si faccia parte della stessa famiglia) e la lettura di libri laici, le calze che hanno un colore troppo simile alla pelle, la visione di film, di internet e persino alcune parole – come “dinosauro”, “evoluzionismo”, “palestra” – che sono censurate e di cui addirittura non si conosce il significato. In One Of Us Etty, denunciando il marito alla polizia, non solo infrange il divieto di segnalare un ebreo ultra-ortodosso alle autorità competenti, ma mette anche in luce un sommerso di illegalità che la comunità in primis vuole tenere nascosto: “La legge qui non vale. Questo è l’esatto opposto di ciò che è permesso fare. Rendere pubblici i nostri segreti, i nostri bellissimi segreti. La bellezza dell’ebraismo sta nell’essere riservati, restare zitti e tenere tutto nascosto”.

Il lavoro di Ewing e Grady è durato tre anni: i primi sei mesi sono stati impiegati a convincere Footsteps – che protegge accuratamente l’identità dei suoi membri per evitare rappresaglie da parte di altri chassidici – a collaborare al progetto. Partecipando ai gruppi e agli eventi le registe hanno così individuato Ari, Luzer ed Etty, ma prima di iniziare a seguire il loro personale viaggio fuori dalla comunità, si sono dovute assicurare che il terzetto comprendesse perfettamente che, una volta pubblicati su Netflix, i loro racconti sarebbero diventati di dominio pubblico. Il personaggio più vibrante del documentario, Etty, si trovava in gravi difficoltà e aveva bisogno di far sentire la sua voce sistematicamente emarginata: “Per proteggere il suo anonimato, Etty aveva inizialmente stabilito che il suo viso non poteva essere mostrato sullo schermo”, racconta Grady. “Aveva così tanto da dire, però, che abbiamo iniziato a incontrarci con degli illustratori: stavamo infatti progettando di animarla e camuffarla. L’abbiamo ripresa in una miriade di modi, non sapendo esattamente cosa ci saremmo inventate, a volte filmando la sua faccia, a volte no. Poi a un certo punto ha cambiato idea, e nel film abbiamo cercato di trasmettere questa evoluzione al pubblico”. Il momento a cui la regista fa riferimento è forse uno dei picchi del documentario: la ragazza, davanti a uno specchio che rivela il suo volto, si toglie la parrucca passandosi la mano tra i capelli corti, e allo stesso tempo si trasforma da vittima invisibile a coraggioso emblema di una rinascita esteriore, oltre che interiore.

One Of Us è stato acclamato negli Stati Uniti, e diversi magazine, dal New York Times al Business Insider, passando per il Village Voice, Elle e Indie Wire ne hanno lodato il valore. Il Jewish Journal – la maggiore pubblicazione della comunità ebraica in America – si è schierato a favore della rappresentazione fornita dal lungometraggio, sottolineando come la sopravvivenza (fisica, ma anche e soprattutto psicologica) degli ex-chassidici sia una responsabilità della comunità ebraica nella sua interezza, che in tal senso deve riuscire a “essere lì per loro, dimostrando solidarietà ed empatia”. Il rabbino Yitzchok Adlerstein, sul blog ortodosso Cross-Currents, ammette che la visione sia stata “estremamente dolorosa”, per via delle “molte altre storie che ancora non vengono raccontate”, mentre Amy Spiro sul Jerusalem Post fa notare come si dia una raffigurazione “malvagia e perversa (…) avvincente, ma incompleta” della vita chassidica, dove non trovano spazio le tante persone che conducono un’esistenza felice all’interno della comunità.

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Lo scrittore chassidico Moshe Levy è una delle poche voci fuori dal coro: in un lungo articolo su Forward, sottolinea come il documentario esponga “un lato oscuro della comunità: questa storia deve essere raccontata, ma qui viene raccontata in stile hollywoodiano e non in stile documentaristico. (…) Se il film fosse la mia unica finestra sul mondo chassidico, avrei ottenuto un’immagine caricaturale della mia comunità”. L’autore non si trova d’accordo con Amy Spiro sulla necessità di mostrare persone felici: “Come se la felicità fosse una novità nella nostra comunità, come se dovessimo avere più o meno persone felici di qualsiasi altra società. In realtà, la maggior parte delle persone chassidiche conducono una vita sorprendentemente simile a quella del resto del mondo civilizzato”. Mosher prende atto di far parte di una comunità “insulare”, con una propria cultura all’interno di una cultura più ampia, che possiede paradossi e contraddizioni, ma in questa cultura (come in quella laica) “esistono persone buone e persone cattive, matrimoni felici e matrimoni senza amore, credenti e scettici, filantropi e pedofili, rabbini e stupratori”.

“È come se uno straniero dovesse farsi un’idea dell’Italia guardando solo Gomorra: cosa credi che penserebbe?”: l’interrogativo mi viene posto da Gheula Canarutto Nemni, scrittrice e giornalista di tematiche ebraiche, in una fredda e assolata domenica. Sono arrivata a Gheula tramite Beit Chana, una scuola di Milano per ragazze ebree ultra-ortodosse che fa parte della corrente Chabad-Lubavitch, uno dei movimenti chassidici con più aderenti. Nella sua casa, dove sono stata accolta con estrema gentilezza, campeggia un grande ritratto del “Rebbe” Menachem Mendel Schneerson, l’ultimo capo spirituale dei Lubavitch, che dal 1941 al 1994 ha guidato la comunità, portandola a diffondersi in tutto il mondo. Gheula non ha visto One Of Us, ma nel corso della nostra chiacchierata questo diventa irrilevante: mi spiega che l’apertura delle correnti chassidiche varia da gruppo a gruppo, ciò che però non cambia è la possibilità – e la capacità – di far convivere la vita religiosa con il mondo esterno, evitando l’omologazione. I dettami della Torah – che potrebbero sembrare a prima vista delle costrizioni – per lei, la sua famiglia e la sua comunità non sono vissuti come tali, ma sono piuttosto come “il guard rail in autostrada: ti permettono di correre veloce, senza sbandare e rimanendo nella giusta corsia”.

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Essere chassidim, ieri come oggi, significa cercare di prendere quello che il mondo offre farne un uso positivo, perché “la materialità è neutral, sta a noi portarla nella sfera del bene”. Vero è che osservare gli insegnamenti e le regole contenute nei testi sacri, così come rispettare tradizioni secolari, è una sfida continua volta a preservare la propria identità: Gheula mi racconta di stare cercando una moglie per uno dei suoi (sette) figli, e di avere WhatsApp intasato di potenziali candidate che diverse matchmaker le stanno sottoponendo. Un po’ come per alcune app di dating online, le matchmaker attingono da una banca dati per cercare di far incontrare ragazzi e ragazze ebree, nella speranza che ci sia la fatidica corrispondenza: “Se non c’è amore, se non scatta quella scintilla che ti fa perdere la testa, vuol dire che non hai ancora incontrato l’anima gemella”, puntualizza. Le chiedo allora se all’interno di questa prassi ci sia ancora spazio per il classico colpo di fulmine, lei replica in modo fermo ed educato che sì, qualora il figlio dovesse notare una ragazza all’interno della comunità che gli piace, lei farebbe di tutto per combinare un incontro. Ed è allora che capisco cosa intendeva all’inizio, quando mi parlava di “adattamento” e “convivenza”: è l’utilizzo di WhatsApp che si adegua ai principi di “modestia” sui quali i Lubavitch costruiscono la propria esistenza, divenendo a essi strumentale e permettendo a una controllata modernità di insinuarsi nel quotidiano, senza stravolgerlo.

Sulla via del ritorno, mi tornano in mente Etty, Ari e Luzer: navigare in internet con il parental control e sotto la supervisione di un adulto avrebbe cambiato il loro destino? Leggere libri laici “validati” da un genitore li avrebbe fatti sentire meno prigionieri? Essere liberi di innamorarsi all’interno della comunità avrebbe alleggerito la loro sofferenza? Ironia della sorte, prima di congedarmi, Gheula mi regala una copia del suo romanzo, (Non) si può avere tutto. È vero, avere tutto forse è impossibile, ma oggi una conversazione produttiva e onesta, tra gli ebrei, sulle tematiche evidenziate da Ewing e Grady rientra tra le cose che non solo ci possono, ma ci devono essere.

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