L'Italia ha un pessimo rapporto col femminismo. Il MeToo l'ha dimostrato. - THE VISION

Il caso Weinstein in Italia ha avviato sulla stampa e sui social, una sorta di domino di effetti emotivi e mediatici piuttosto interessanti, e nel complesso utili: per un certo verso a fare il punto della situazione delle questioni di genere in Italia, e per un altro a costringere molte persone a prendere contatto diretto con questo ordine di problemi, portandoli a rinegoziare le loro posizioni.

Nell’ordine abbiamo avuto: l’esplosione del caso Weinstein, la polemica sulle dichiarazioni di Asia Argento, il dilagare su tutti i social delle dichiarazioni del #metoo, l’articolo di Soncini su The New York Times e la polemica sul fatto che fosse Soncini a scriverlo. Questa successione di eventi mediatici ha portato una consistente parte dell’opinione pubblica nell’ordine a: riconsiderare il femminismo come un agente politico rilevante, misurarsi con le questioni poste dal femminismo nel nostro contesto culturale, osservare la pulviscolare pervasività della violenza di genere, e a prendere atto di quanto è complicato costruire un dibattito pubblico utile su questi argomenti – complicato è quasi un eufemismo, diciamo ai limiti dell’impossibile.

In primo luogo è bene separare le persone femministe in senso stretto da quelle in senso lato. Le prime sono persone che sono state attive, a vario titolo, in vari ambiti del femminismo: hanno pubblicato libri sul tema, hanno portato avanti inchieste di lungo corso, hanno lavorato nei centri antiviolenza o in varie fasi della loro vita hanno fatto una politica attiva all’interno di agenzie femministe. Le seconde, invece, sono persone che stanno fuori da questi contesti, non si occupano di questi temi politicamente o professionalmente, ma dichiarano un eventuale orientamento se interrogate ed esprimono un pur legittimo parere, sollecitate più che altro da un dibattito eclatante – senza però aver maturato nel tempo alcuna competenza specifica. La maggior parte delle persone di questi due gruppi – oggi bisogna dire molto meno di ieri – sono donne e hanno tutte partecipato nel dibattito innescato sul caso Weinstein.

Diversamente da altri, ho trovato su questa vicenda le femministe di diverse scuole singolarmente compatte e anzi, in polemica con le donne che giudicavano negativamente le attrici che denunciavano. Ma io stessa mi sono ritrovata a essere in sintonia con attiviste da cui normalmente mi sento molto lontana quando non in esplicito attrito, perché il caso Weinstein riguarda forse l’unica cosa su cui le femministe siano serenamente unite e d’accordo: ossia che esista un problema di cui si sono occupate da tempo immemore, e riguarda l’incrocio maligno tra uso del sesso e sperequazione di potere.

In una prospettiva femminista, per esempio, l’asimmetria di potere rimane sia che lei si offra all’uomo potente sia che lui si imponga come uomo potente quando in gioco c’è un posto di lavoro. Perché il problema è un sistema in cui il femminile è disconosciuto come titolare di potere e di competenza al di fuori della sua capacità erotica. In questo caso, le polemiche sono sorte o dal fronte di chi si dichiara salottieramente interessato alle questioni di genere, in una maniera generica e opinionista – le giornaliste di gossip che twittano facezie – o da parte di donne che a vario titolo dicono la loro, con una minore sorveglianza sulla qualità delle proprie opinioni e sulle loro implicazioni politiche, e soprattutto con l’implicito problema di quanto personalmente aderiscano a quel sistema di potere in cui sono inserite.

In generale comunque, per tutte le donne – che siano femministe o no, che abitino in Italia o no – l’idea di un fronte femminista unito è una costante onirica agognata quanto impraticabile, e rimango sempre allibita quando persone anche di ingegno scuotono la testa e biasimano le donne perché non sono tutte sorelle. La sorellanza però è impossibile, per due ordini di ragioni.

Il primo ordine è di carattere politico: ci sono diversi modi di intendere la vita di una donna nel mondo e nelle relazioni e tutti sono connotati politicamente – dove politicamente altro non è che il vecchio arco parlamentare che da sinistra corre verso destra. Per esempio, il dibattito sulla GPA (maternità surrogata) è anche così feroce perché riporta sul corpo delle donne la vecchia antinomia tra comunisti e liberali – dove le contrarie alla GPA si preoccupano della politica dei corpi sfruttati  e dei soggetti inconsapevoli su cui ricadono le scelte; mentre le favorevoli, per esempio, rivendicano la libertà di usare il proprio corpo la titolarità delle proprie decisioni in fatto di gestazione. Si sono scannati per queste cose intorno alle barricate, non vedo perché, considerando l’importanza della posta in gioco, non dovrebbero emergere opinioni violentemente avverse anche in questo contesto, ed è piuttosto provinciale credere che questo tipo di contrasto riguardi solo l’Italia. È invece connaturato a questo tipo di dibattito, e raggiunge toni ancora più aspri là dove è ancora più forte e istituzionalizzato, come per esempio nel mondo accademico nordamericano.

Le differenze di sguardo politico sono un dato costante dei dibattiti femministi, perché mescolano a seconda dei tavoli la lista delle priorità e i modi di intendere il vissuto familiare. Chi ci sta dentro sa che ci sono femministe che si concentrano sulle politiche del lavoro, sulla copertura dei salari, sul rispetto dei permessi accordati, o sulle dimissioni in bianco da far firmare alle neospose, e chi invece si occupa di diritto alla rappresentazione di sé nei media come soggetto eventualmente ipersessuato, o al contrario completamente androgino. Sa che ci sono cioè riproposte le diverse tematiche del dibattito pubblico nelle sue diverse variabili declinate sui problemi di genere. E sa che le diverse liste di priorità generano differenze.

Ma c’è un secondo motivo per cui ci sono molti femminismi e pochissime sorelle, e riguarda la natura privata degli argomenti trattati, per cui ogni donna che si trovi a parlare di questioni di genere si trova, in maniera parzialmente consapevole a parlare di fatti che la riguardano profondamente. Se il dibattito sulla GPA chiama in causa per tutte, il proprio rapporto con il corpo, la propria vicenda privata di madre e di figlia, la propria vita relazionale e quella della propria coppia genitoriale, il proprio relazionarsi alla generazione e all’essere generate, il dibattito sul caso Weinstein mette il dito sulla propria rappresentazione erotica del potere.

Una mia amica, affatto femminista bisogna dire, mi ha detto per esempio: “Scusami, hai pensato al caso dell’attrice sconosciuta che si sposa un grande regista che la renderà famosa? Si amano, fanno figli. Mettiamo questo tema sul tavolo – almeno, io lo metto sul tavolo – del potenziale erotico che ha il potere maschile per una donna”. Ora, qui il punto non è quanto fosse chiaro a entrambe che Weinstein non doveva ricattare nessuna, ma il punto è che parlare di Weinstein può voler dire ricordarsi di quello che simbolicamente rappresenta, quale immagine psichica evoca, che rapporto ha la donna che parla di potere come oggetto erotico e con la teoresi del dominio e del ricatto. Non sono le donne, non è neanche la provincia dell’Impero, è sempre così quando il campo del dibattito tocca corde private. E questo è il campo dove, ricordo, il privato è politico.

Mi viene poi da fare una notazione analitica sul particolare tasso di acrimonia che connota lo scambio tra donne. Si dirà: in Italia più che altrove? Forse, ma meno di quanto si creda. Il dibattito tra donne elicita proiezioni particolari, più forti, più viscerali. È tutto un battibecco tra figlie verso madri, madri verso figlie, sorelle che si litigano per l’approvazione della madre, e via dicendo, perché è questo l’ordine di proiezioni che sollecita questo tipo di contesto, molto più di quanto accada nelle maschie stanze della politica – accade anche li, eccome – e malgrado le intenzioni delle parti in causa. Tutto questo nelle compagini del femminismo attivo è sempre stato presente, magari a livelli più alti – più attento e controllato. Ma quello che hanno rivelato i social è stato proprio questo aspetto privato, complicato, addolorato della questione. I social hanno mostrato l’emotivo incontrollato delle donne che parlano con le donne a proposito di donne, in una congerie di comportamenti talora clinicamente rilevanti e talora eticamente dubbi, in cui anche le migliori finiscono per cadere peggiorandosi, e poi ritrovandosi con un boomerang tra le mani, avendo affidato a una comunicazione che si credeva spontanea e volatile come quella verbale, le proprie autentiche reazioni, che però sono oggetti scritti, permanenti e stabili, e quindi percepiti in tutta la loro tridimensionale concretezza.

Questo non vuol dire che non esista un problema italiano con il femminismo, ma questo problema non sono le liti e le differenze interne, che per l’appunto gli sono fisiologiche. In Italia il problema del femminismo e anzi dei femminismi, è invece la difficoltà da parte di tutti, a concepire il femminile – le donne, le madri, le figlie – al centro di una titolarità di diritto da declinare ognuno secondo la propria coscienza politica e il proprio sguardo sul mondo, purché non ci si scolli, dal riconoscimento di quel sacrosanto diritto.

Questo disconoscimento di urgenza, questa negazione di priorità, è ciò che riduce i femminismi italiani a qualcosa che appare come una sorta di falsa continuità con l’opinione pubblica, molto più spesso a qualcosa che è considerato un vecchio corpo estraneo di cui non si capisce bene il senso nella contemporaneità, anche se questa contemporaneità rimane determinata da un profondo maschilismo e un profondo sessismo. E se c’è una cosa a cui tutta la vicenda Weinstein, Argento e via di seguito è stata utile, è da una parte l’aver reso evidente come certi modi di pensare le donne e il potere siano sopravvissuti, dall’altra quanto evidentemente tutto questo sia d’ostacolo a una riproposizione politica del problema. Osservando le reazioni sui social, quindi, forse c’è da essere ottimisti.

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