Lena Dunham non è la voce della mia generazione - THE VISION

Lena Dunham ci sta mettendo molto poco a rotolare, dalle vette del più sgargiante femminismo, agli abissi del razzismo più infamante. Il più subdolo. Fighetto. Paraculo. Raffinato ma degno erede del suprematismo bianco. Il “razzismo hipster”, l’ha definito qualcuno, negli Stati Uniti.

Dunham, regista, scrittrice, influencer, ha difeso Murray Miller, uno degli autori della sua serie, Girls, accusato di aver violentato, nel 2012, l’attrice Aurora Perrineau, all’epoca diciassettenne. Ha ricordato i dati percentuali sulle denunce di violenze sessuali: il 3% percento risulta falso. Il suo Murray, che tramite il suo legale contesta fermamente le accuse, doveva per forza rientrare in quella percentuale. Com’era prevedibile, una slavina di tweet indignati si è abbattuta sul suo account, tutta la stampa ha espresso sdegno (in molti hanno sottolineato che da una come lei c’era da aspettarselo) e, soprattutto, Zinzi Clemmons, scrittrice, ha abbandonato la barca di Lennyletter, la newsletter su donne, empowerment femminile et similia, fondata da Dunham qualche anno fa.

Murray Miller
Aurora Perrineau

“Credo in moltissime cose, ma il primo principio della mia politica è sostenere chi mi ha sostenuto, riempendo il mio mondo d’amore,” ha scritto su Twitter il 19 novembre, sperando così che si capisse che la sua posizione le veniva imposta dal rispetto di un principio sacro: la riconoscenza verso chi ci ama. Ha ottenuto tremila e passa cuoricini. “Credete alle donne, fino a quando non dicono qualcosa contro un mio amico: in quel caso sono delle bugiarde,” ha risposto un utente, ottenendo novemila e passa cuoricini. Dopo due giorni di massacro, accuse di razzismo, favoritismo, femminismo d’occasione e opportunista, lobbismo, sessismo, snobismo bianco, ipocrisia progressista, fiancheggiamento del patriarcato turbocapitalista, Lena si è scusata. Ha ribadito che, “in quanto femministe, credere alle donne è la scelta che facciamo ogni giorno, appena ci svegliamo”, che lei voleva solo condividere un’idea che ha di un amico che ha conosciuto dietro le scene e i clamori, ma che ha del tutto toppato modo, tempo, ragioni per farlo.

Non s’è intenerito nessuno perché i cortocircuiti sono irreversibili e Dunham è refrattaria a capirlo, sebbene questo non sia il suo primo autogol, la prima auto-smentita, certamente non intenzionale, di ciò che professa. Vulture ha scritto che Lena Dunham ha approntato, negli anni, una particolare competenza (skill): scusarsi. Nel 2016, ha ricordato la rivista, scrisse un racconto per LinkedIn in cui denunciava il “chiedere scusa” come una delle molte piaghe femminili dovute all’assoggettamento patriarcale. Naturalmente, riconosceva di essere del tutto contagiata dal morbo e, soprattutto, di non riuscire a guarire: “Dico scusa tutto il giorno e non ha senso, visto che non sono un signore della guerra, un automobilista ubriaco, un fattorino che sfreccia sulla 6th Avenue terrorizzando i pedoni”. All’epoca di quel pezzo, la galleria di scuse pubbliche che Lena Dunham aveva inoltrato tramite Twitter per tentare di salvarsi la faccia era già parecchio ricca: dare la colpa al patriarcato doveva esserle sembrata un’ottima mossa per fugare ogni dubbio sulla sua buona fede.

Ma Lena Dunham ritrattò quando, nel 2015, tracciò un imbarazzante parallelo tra i crimini sessuali di Bill Cosby e l’Olocausto. Quando, lo scorso anno, accusò Odell Beckam Jr., seduto accanto a lei al Met Gala, di non averla degnata di uno sguardo, probabilmente perché non rientrava nei suoi canoni estetici (la comunità afroamericana in particolare le fece insistentemente notare che un uomo di colore seduto accanto a una donna bianca non necessariamente desidera importunarla o portarsela a letto, tranne che nell’universo di pregiudizi post-colonialisti dei radical chic).

È esistito un tempo in cui le reginette del pop non solo non erano femministe, ma erano persino, quasi, antifemministe: l’altro ieri. Era solo il 2014 quando su La27esima ora del Corriere ci si preoccupava dell’avanzata del movimento (più che altro era un hashtag) #WomanAgainstFeminist e del fatto che le ragazzine venerassero Katy Perry, Taylor Swift, Lady Gaga, Kristen Dunst, tutte sulla medesima linea: “Non sono femminista, amo gli uomini”.

Riuscite a immaginarvi una di loro o una qualsiasi femmina (ma pure maschio) di spettacolo che, oggi, dica qualcosa di simile? Taylor Swift ha raccontato di aver cambiato idea dopo aver incontrato Lena Dunham ed essere diventata sua amica: sarebbe stata lei a spiegarle che il femminismo non è contrapposizione con l’uomo, ma battaglia d’uguaglianza (dettaglio che getterebbe una luce piuttosto infausta sull’istruzione statunitense se non fosse che parliamo di una che vive in un universo a parte, beata lei).

Lena Dunham, probabilmente, ha incarnato quel passaggio, quel momento nel quale il femminismo è tornato a essere parte della coscienza delle ragazze. Lena Dunham è senz’altro un volto che viene in mente quando si pensa al femminismo delle millennial: fa parte della sua iconografia. Quando arrivò Girls (la serie TV che ha ideato, firmato, recitato per la HBO, sei stagioni dal 2012 al 2017), fummo sollevate (anche se non propriamente felici) dal vedere che le newyorchesi non erano tutte multiorgasmiche, toniche, ricche e col culo parato, ma erano anche grasse, ossessivo-compulsive, precarie e sole. Su quel sollievo, Lena Dunham ha costruito il suo impero. Ha trasformato il femminismo in un imperativo categorico funzionale all’auto-accettazione e, immediatamente dopo, in un lustra-coscienza. Il suo lustra-coscienza personale.

Di buono c’è che più di qualcuno ha smesso di perdonarglielo.

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