Sono incinta in un Paese che ti rende impossibile esserlo - THE VISION

C’è una cosa da dire. Noi donne della gravidanza e della maternità non sappiamo un bel niente. A volte non sappiamo niente nemmeno del nostro sistema riproduttivo, del nostro ciclo, dei nostri cambiamenti ormonali e delle malattie che potremmo contrarre durante i rapporti sessuali, figuriamoci del resto. Nessuno ce ne parla, nessuno ce lo insegna, finché non arriva il momento, ma il momento ormai sembra arrivare sempre meno e sempre più tardi. Non so perché sia così. È una cosa normale, una cosa che le nostri madri e noi in quanto neonati abbiamo vissuto. Eppure è avvolta da un’atmosfera di mistero e segreto. L’unica cosa che ci suona famigliare all’orecchio resta: “Partorirai con dolore”.

Da quando sono incinta, andando in giro per ospedali e corsi preparto – o anche solo facendo più attenzione alle altre pance in giro per la città – mi sono resa conto che la maggior parte delle gravide supera ampiamente la trentina. Molte sono aumentate troppo di peso – e no, per quanto riguarda la gravidanza l’estetica non c’entra, ma solo la salute – soffrono di gestosi, spesso di diabete. Man mano che la gravidanza avanza fanno sempre più fatica a muoversi e a respirare, e quindi a mantenere una buona ossigenazione del sangue, degli organi e del feto. Tutte queste patologie, legate all’età e alle cattive abitudini, fanno sì che la mortalità delle donne durante il parto sia raddoppiata a partire dal 2000, soprattutto in Paesi ipernutriti come l’America. Molte hanno alle spalle un recente aborto spontaneo che le ha traumatizzate, e vivono nella paura di perdere il bambino, per questo iniziano a vivere come se avessero una patologia e non una nuova vita nella pancia. Molte non hanno una chiara idea di come avvenga il concepimento. La maggior parte delle coppie ha drammatiche lacune su molte delle nozioni biologiche di base. Ghiandole, ormoni, sistemi. Nessuna idea. Molte donne arrivano ai quarant’anni e vogliono procreare, e spesso scoprono solo allora che è molto faticoso, difficile, se non proprio impossibile. Perché ormai diamo la natura per scontata. Tutto è diventato artificiale. Non ci rendiamo conto che la gravidanza è una cosa naturale, non una cosa che possiamo “progettare”. Per avere le cose – la maggior parte di esse almeno – basta volerle, andarsele a prendere, pagarle. Peccato che coi bambini non funzioni sempre così.

È stato così che mi sono trovata a rivalutare l’orrenda campagna del Fertility Day, promossa l’anno scorso dal governo. Certo, era sviluppata male, rozza e a tratti offensiva, ma sicuramente aveva alla base una ragion d’essere: sensibilizzare le donne, le coppie. Non c’è tempo per sempre, ci sono delle priorità, e bisogna fare delle scelte consapevoli, mentre di solito la scelta di non avere figli è passiva, obbligata e inconsapevole, dettata da obblighi socio-economici. La prova è che molti altri Paesi hanno fatto campagne simili (riuscite molto meglio) come ad esempio quella danese, aperta anche a coppie gay e sterili. Ma, attenzione, non voglio sostenere che tutte le donne debbano avere un figlio, ci mancherebbe altro, e nemmeno che una donna che non ha avuto un figlio non sia realizzata (come poteva suggerire la campagna italiana). Avere un figlio non porta necessariamente alla realizzazione, come nemmeno avere una carriera stratosferica. Ognuna è libera di fare ciò che vuole, ma a volte siamo convinte di esserlo quando invece siamo profondamente influenzate dall’ambiente che ci circonda e dal modo in cui siamo cresciute. Qui il punto non è voler fare figli o meno, ma rifiutare tout-court l’idea della maternità.

Le donne che scelgono di non avere figli si sono sentite offese dalla campagna sulla fertilità, e posso capirle. Ma una frangia di cosiddette femministe continua a lamentarsi del fatto che per la società l’idea di massima realizzazione e felicità per una donna sia ancora legata alla maternità, sentimento del quale a oggi faccio fatica a trovare le radici quando tutto nella nostra società è programmato al contrario e cioè a convincerti razionalmente – fino a obbligarti, in certi casi – alla scelta di non avere figli. I nove mesi di gravidanza sono un problema, il periodo di allattamento è un problema, un figlio è un problema, le malattie esantematiche sono un problema. Secondo il nostro modo di vivere la gravidanza ti rende meno produttiva, meno efficiente, e meno engaged nelle problematiche aziendali, perché è inevitabile, ti invita a spostare i riflettori su altre dimensioni della vita. Insomma, è una scelta che sotto uno sguardo pratico e razionale porta molti più problemi che altro. I dubbi e le incertezze sono troppi. Gli asili costano tanto. E se mi licenziano? Quindi perché farlo? Secondo molte moderne “femministe” l’utero è mio e ci faccio quello che voglio io, quindi niente.

Gli stereotipi che riguardano queste donne che non hanno avuto figli abbondano. “Egoista, immatura, […] una che ha tanto tempo libero, rifugge l’impegno, vuol mantenere il corpo atletico,” così viene descritta la donna senza figli nel documentario Lunadigas di Nicoletta Nesler e Marilisa Piga, ma ancora: incompleta, non a proprio agio con se stessa, materialista. Sono nati così gruppi sui social e safe space dedicati alle persone che hanno scelto di non avere figli o che si sono pentite di averne avuti. Queste ultime però meritano un discorso a parte, perché spesso la loro condizione deriva proprio dal fatto di non aver potuto godere di un un safe space e di un’assistenza umana e professionale. Molte madri “pentite”, infatti, si trascinano dal momento del parto disturbi post-traumatici da stress che possono trasformarsi in veri e propri disturbi psichiatrici. È così che nel 2016 è nato l’Osservatorio sulla Violenza Ostetrica e la campagna #bastatacere. Sono infatti molte le donne che dichiarano di aver vissuto il parto in maniera negativa, solitamente a causa dei trattamenti ospedalieri, dell’eccessiva medicalizzazione e dei numerosi casi di violenza ostetrica, che ancora oggi non è riconosciuta dalla legge italiana.

In ospedale spesso i medici approfittano del loro potere e della mancanza di conoscenza delle pazienti in un momento di totale fragilità, il parto rientra in un’ordinata catena di montaggio, deve essere efficiente e rispettare particolari tempistiche calcolate sulla media mondiale. Così, in molte strutture da protocollo non viene nemmeno fatto firmare il consenso informato per molte operazioni – come ad esempio l’episiotomia, l’incisione del perineo e della parete posteriore vaginale che allarga il canale del parto, facilitando l’espulsione, ma anche per flebo di ossitocina (che intensifica le contrazioni dell’utero), eccetera.

Come dimostrano i dati dell’OMS, la maggior parte degli interventi medici non sono necessari, vengono eseguiti per velocizzare il parto – ad esempio in caso di cambio turno del personale ospedaliero – per prassi ospedaliera e/o per motivazioni economiche. Questo non è solo un problema che riguarda le gravide e le partorienti, ma in generale tutti gli ambiti dell’ostetricia. Disinformazione, umiliazione, abbandono, attacchi fisici e verbali, violazione della privacy, finiscono per trasformarsi in shock difficili da superare. Perché, anche in questo caso, come per le molestie, la frase che ci sentiamo dire più spesso è: ma quante storie, dai che passa tutto, non prenderla così male. Vorrei vedere se vi tagliassero il glande senza avvisarvi.

Una delle mie compagne al corso preparto all’ultimo incontro ha detto: “Ma insomma, se è così faticoso partorire, non capisco perché non facciano a tutte il cesareo”. Evidentemente la tocofobia, la fobia del parto, è più diffusa del previsto. La psicologa ci ha confessato che l’ospedale si è quasi pentito di aver comprato la vasca per il travaglio in acqua perché tanto tutte vogliono l’epidurale – e non voglio fare un’apologia della sofferenza, ma sarebbe interessante analizzare questa paura del dolore, anche di un dolore “sano” come può essere quello del parto. Invece di prepararsi psicologicamente ad affrontarlo, spesso si tende a relegare la responsabilità all’analgesia. Siamo noi le prime a metterci nelle mani di quei medici e di quelle strutture che poi spesso finiscono per approfittare della nostra sottomissione. Così, anche la violenza ostetrica può essere percepita tale semplicemente a causa della mancanza di preparazione all’evento. Se non so cosa mi stia succedendo, se i medici non me lo hanno spiegato (e non sempre c’è tempo per farlo), se non mi hanno avvisata in precedenza, se non mi è stato spiegato perché succede una certa cosa e che conseguenze avrà io vivrò qualsiasi intervento – anche il più necessario, anche il più piccolo – in modo passivo e questo porterà a un’inevitaibile dissociazione. In questo c’è da dire che i corsi e gli incontri, che sempre più spesso vengono organizzati da ospedali e associazioni, offrono un grande sostegno e una solida base da cui partire per costruirsi una visione consapevole della situazione. Senza una preparazione e una conoscenza adeguate rischiamo di confondere la pillola anticoncezionale e l’allattamento artificiale per la libertà. La donna si è autoespropriata della sua sessualità, nel senso più ampio del termine, e della sua capacità di generare per gestire meglio il potere all’interno della società maschile. Questo lo aveva già intuito Freud, ma ciò che non aveva capito è che spesso è una strumentalizzazione operata più o meno involontariamente dalla donna stessa.

Secondo uno studio fatto dalle demografe Maria Letizia Tantulli e Letizia Mencarini, più della metà delle donne childfree usa una delle seguenti motivazioni per la propria scelta: “Non mi piacciono i bambini”, “Non voglio sacrificare la mia libertà – o la mia relazione – ai tempi e alle necessità di un bambino”, “Occuparmi di un bambino è un’attività deprimente o una perdita di tempo per la mia realizzazione personale”. Tutto comprensibile. Anche l’uso reiterato della parola “bambino” invece di “figlio”. La prima motivazione tuttavia mi fa sospettare che ci sia a monte qualche irrisolto più importante sulla questione. Tutti siamo stati bambini, come possono non piacerti i bambini? Sono i cuccioli della nostra specie, non sono un certo tipo di cucina esotica. Non mi piace il baccalà alla portoghese, il pesce crudo mi fa impressione, ah, e invece a me non piacciono i bambini. O sei un personaggio di Molière o c’è qualcosa che non torna. Mentre le altre ragioni sono semplicemente egoiste. Perché facciamo scelte egoiste se poi non vogliamo essere definiti tali? Se ci addentriamo in questo concetto però non se ne esce più, anche perché per alcune childfree si potrebbe parlare di egoismo inverso: avere un figlio a tutti i costi, quando la tua vita è strutturata in modo da non potertene prendere cura sarebbe sì frutto di uno “spaventoso egoismo”. Quello che sembra spaventare, ancora una volta, è il senso di colpa e il giudizio sociale.

Altre ancora hanno invece un ideale talmente alto della “Madre” che non si sentono all’altezza di ricoprire quel ruolo. “Per sentirmi adeguata dovrei investire tutte le mie energie sul bambino e rinunciare a tante cose: non me la sento,” racconta una childfree su L’Espresso. Queste donne subiscono l’idea che una madre debba sempre e comunque amare il proprio bambino e agire in funzione del suo bene, e pensano di non esserne pronte e capaci. Peccato che siamo mammiferi e che la selezione naturale abbia lavorato a lungo per noi. Accade e basta. L’istinto materno non è, a differenza di molte altre sovrastrutture sulla maternità, un’idea sociale, ma è parte della natura, nasce dai nostri stessi ormoni, anche se qualcuno sostiene il contrario. Se solo ce lo avessero fatto studiare sapremmo che è tutto calibrato al millimetro – più o meno. Certo, come dice la filosofa Élisabeth Badinter “Non bastano gli ormoni a fare una buona madre” (anche se sicuramente aiutano), come non basta una laurea in legge a fare un buon avvocato.

Come scrive Verena Schmid, e non solo, il parto è un momento di passaggio per la donna, soprattutto dal punto di vista psicologico. Così come lo è il diventare padre. Quindi da un certo punto di vista la donna che non lo vive può essere considerata più “immatura”, nel senso che le manca un’esperienza, che non ha attraversato una soglia, che è rimasta nella dimensione psicologica dell’essere figlia. E ancora una volta, non c’è nulla di male in questo. Allora perché vergognarsene? Forse perché alla società in fondo non va bene né l’una né l’altra scelta e ancora tutti pretendono di dire la loro sulla condizione della donna. Ma non facciamoci confondere, non ospitiamo nel nostro utero una guerra che dovrebbe avere altri campi di battaglia. Non ce lo meritiamo.

La gravida viene spesso lasciata sola e costretta a subire giudizi discordanti da parte del suo ambiente, soprattutto da parte di quelle donne che non hanno ancora avuto figli e che proiettano su di lei le loro nevrosi e insicurezze, provando a un certo livello la stessa invidia della capacità di generare che provano gli uomini (teorizzata da psicanaliste come Karen Horney e Melanie Klein). La donna incinta viene vista come una figura archetipica (vedi Erich Neumann) che le costringe a porsi la fatidica domanda che molto spesso le spaventa: E io? Voglio un bambino? Sono pronta per averlo? Sono pronta ma il mio ambiente mi impedisce di farlo? Ormai ci spaventa dire che vogliamo un figlio, se siamo giovani, se non siamo sposate, la società ci fa ancora vergognare di questa cosa, perché lega ancora l’idea di maternità all’idea di dipendenza ed esaurimento, la donna gravida alla donna malata, la puerpera alla donna debole. E invece è tutto il contrario.

È palese che non siamo ancora riuscite ad appropriarci del nostro corpo. Là fuori è pieno di ginecologi obiettori di conoscenza, tutti quelli che quando li chiami appena dopo aver scoperto di essere incinta ti rispondono ma complimenti, che meraviglia, non faccio visite prima della 10ima settimana. Ciò significa che – considerato che per legge, l’aborto deve avvenire almeno 7 giorni dopo il colloquio col ginecologo, e che si può abortire entro la 12esima settimana e 6 giorni – poi bisogna fare molto in fretta. Altrimenti bisogna andare in consultorio, o in ospedale, dove certamente viene riservato un trattamento diverso. A nessuna segretaria od ostetrica viene il dubbio che tu non voglia tenere il bambino quando chiami in ambulatorio, e comunque i medici sono sempre troppo impegnati, così ti fanno sentire in colpa e cercano di farti aspettare il più possibile.

Mi sembra che la ricerca dell’indipendenza di noi donne sia diventata – e si sia confusa con – un’indipendenza dalla natura. Non ci rendiamo conto che così non facciamo altro che allontanarci sempre di più dalla potenza del nostro genere verso un non-genere asettico. Non vogliamo più avere il ciclo, non vogliamo provare dolore durante il parto, senza renderci conto che così ci mettiamo nelle mani della tecnologia farmacologica e dell’uomo. Scegliamo di non vivere ciò che ci rappresenta, lo asportiamo, andando a rinforzare i mille tabù che la società patriarcale ha sempre riversato sul mistero del sangue femminile. Lo rifiutiamo così come farebbe un uomo. E la cosa ridicola è che nel farlo pensiamo pure di esserci emancipate.

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