Perché abbiamo smesso di lottare come Mario Mieli? - THE VISION

Da un po’ di anni in qua, uno dei simboli più usati dai manifestanti durante i Pride sono i cuori rossi con la doppia riga bianca all’interno, il simbolo aritmetico di uguaglianza. “Lo stesso amore, gli stessi diritti”. “Siamo uguali a voi,” andiamo urlando anno dopo anno. E se fosse venuto il momento di smetterla? Il messaggio corretto sarebbe: siamo diversi da voi, facciamo sesso diversamente da voi, talvolta viviamo diversamente da voi, ma non per questo valiamo di meno. Amori diversi, ma di uguale valore, devono avere uguali diritti. Visto che  era troppo lungo, inizio a temere che nella sintesi si sia creato un gigantesco malinteso.

Lo scorso 15 novembre un piccolo flame ha incendiato la comunità Lgbtqi italiana quando un’attivista transgender, Cathy La Torre, ha pubblicato criticandola aspramente la domanda di un test universitario di medicina dove si chiedeva di quantificare la stima percentuale dell’insorgenza dell’omosessualità maschile. La vicenda è montata fino a quando è dovuta intervenire la ministra Valeria Fedeli: “È francamente incredibile e a dir poco inaccettabile, che l’omosessualità sia stata inserita nella categoria delle malattie”. In realtà, come hanno notato altri attivisti, tra cui Vincenzo Branà, l’accostamento tra omosessualità e malattia non era affatto esplicitato all’interno del test e la cagnara che si è innescata può solo danneggiare la comunità Lgbtqi, facendo passare l’idea che di omosessualità sia meglio non parlare.

Anche se non era l’intenzione di Cathy La Torre, la protesta che ha preso vita social puzza lontano un miglio di un’ansia di assimilazione e normalizzazione che il movimento Lgbtqi dovrebbe guardare più criticamente. Questo il pensiero che ci sta sotto: visto che l’omosessualità non è una malattia, visto che è irrilevante o dovrebbe esserlo rispetto ai diritti, allora non ha senso discuterne e parlarne, così come non si parla del fatto che uno ha gli occhi neri o blu, ama la pastasciutta oppure la minestra, perché non sono caratteristiche rilevanti. Solo che non è affatto così, lo sarebbe (forse) se la nostra non fosse più una società maschilista patriarcale o utopica. Ma non è questo il caso.

In questo senso io credo che Mario Mieli – se non avesse infilato la testa nel forno nel 1983, uccidendosi all’età di 31 anni – non sarebbe stato felice di vivere nell’Italia del 2017. Anche perché avrebbe avuto modo di vedere che sarebbe proprio finita come aveva previsto, con una accettazione dei gay nel consesso pubblico a patto di non fare troppo casino e nascondere le cose più “disturbanti” – quelle cioè che lui sbandierava nei suoi travestimenti, nelle sue provocazioni – sotto il tappeto.

Per questo è benvenuta la ristampa del suo libro principale, Elementi di critica omosessuale, che Feltrinelli ha riportato l’8 novembre nelle librerie a 15 anni dall’ultima edizione. Un libro strano, strampalato, una tesi di laurea rivista e corretta dove “la proposta di Mieli,” cito dalla quarta di copertina, “è un’utopia da vivere, partendo dal presupposto che la liberazione dell’eros nelle sue forme neglette e represse è il solo serio antidoto al predominio mortifero della norma e del capitalismo”. Un saggio superato in moltissime sue parti, criticabile in altre, ma che sbatte in faccia alle persone l’irriducibile e orgogliosa differenza di una persona per cui il problema non è mai stato quello di farsi accettare, piuttosto quello di marcare una distanza tra lui e il mondo che, se mai andava colmata, andava colmata portando il mondo verso di lui e non viceversa.

Mieli è uno che scriveva cose così: “Gli omosessuali che vanno a battere – e quasi tutti i gay vanno a battere – sanno perfettamente che il loro piacere è molto spesso legato alla trasgressione della legge, dell’ordine (anche in quegli stati in cui l’omosessualità non viene considerata indipendente titolo di reato): noi gay abbiamo sempre fatto all’amore nelle strade, nei parchi, nei cessi pubblici, nei cinema, nei musei, nelle chiese, alle Tuileries. Ci siamo fatti inculare dietro i muri delle caserme, abbiamo fatto pompini in ginocchio dinnanzi alle tombe di Santa Croce, abbiamo organizzato orge grandiose sotto i ponti delle ferrovie.”

Oppure: “Se dell’omosessualità ciò che inorridisce soprattutto l’homo normalis, poliziotto del sistema eterocapitalistico, è il prenderlo in culo, ciò dimostra che uno tra i nostri piaceri più deliziosi, il coito anale, ha in sé una notevole dirompenza rivoluzionaria. Ciò che di noi checche è maggiormente biasimato contiene gran parte della nostra gaia potenzialità sovversiva. Il mio tesoro lo conservo in culo, ma il mio culo è aperto a tutti…”

E ancora: “Io sono contento di essere una checca evidente, ‘femminile’: la sofferenza che ciò, in questa società, comporta è al tempo stesso la misura o se si vuole lo specchio della dura e insieme fragile e preziosa bellezza della mia vita. È un grande destino possedere e cercare di vivere con chiara coscienza un’esistenza che la massa regolare, nel suo idiota accecamento, disprezza e tenta di soffocare.”

Chissà se a Mario Mieli costava recitare sempre la parte del maledetto, dell’anormale. È un compito scomodo, ma utile ancora oggi per scardinare scale di valori di una società che di fuori norma ne crea a ripetizione: sessuali, etnico-razziali, religiosi, economici. Abbiamo spostato il muro della “normalità” ai gay e alle lesbiche, a patto che non siano rispettivamente troppo femminili e troppo maschili; alle transessuali, basta che non vengano da Paesi africani o del Sud America, o si prostituiscano; a chiunque di questi, basta che non siano musulmani – considerato che l’islamofobia è forte dentro la stessa comunità Lgbtqi; a tutti quelli che vivono la loro sessualità in maniera non troppo vistosa, “senza sbandierare” o, nel caso, facendolo in bar e discoteche ben definiti. Meglio, poi, se dopo un po’ mettono su famiglia.

Intendiamoci: i risultati di uguaglianza raggiunti in Italia e negli altri Paesi sono un patrimonio stupendo che mai avremmo immaginato di guadagnare, anche solo 15 anni fa. La visibilità delle persone Lgbtqi e il grado di accettazione delle differenze nella nostra società ha raggiunto livelli inediti. Ma spostare un muro non è abbatterlo, ed essere dalla parte dei salvati – perché è giusto e legittimo che ognuno persegua infine la vita che più gli aggrada – non dovrebbe esimerci dall’allungare almeno un braccio ai sommersi di una società che maschilista e patriarcale, per non dire razzista, continua a esserlo. Come ha scritto Enrico Gullo su Nero: “Non è necessario stuprare un quattordicenne non consenziente per farsi espellere dal consorzio civile. Come per farsi ricondurre nel circuito dello stigma non è necessario dedicarsi alla coprofagia: basta semplicemente portare un orecchino di troppo o un tacco un po’ troppo a spillo; una minigonna più corta o un taglio di capelli troppo lesbo; delle labbra un po’ più gonfie, degli zigomi un po’ più alti; una performance e dei gesti non abbastanza allineati al maschile o al femminile.”

Meno di due anni fa, quando fuori dal Senato bande di ragazze e ragazzi attendevano il voto finale sulla legge per le unioni civili, una delle esponenti politiche del movimento Lgbtqi più criticate – Paola Concia – sporse la testa fuori dal palazzo, in tempo per vedere lo striscione irriverente di un gruppo – “potere anale contro il capitale” – e dichiarare subito: “Non mi sento rappresentata”. Dubito che in quel momento Paola Concia sapesse di sputare in faccia al pensiero di un signore a cui riportavano quelle parole, Mario Mieli. E glissiamo anche sulla confusione tra rappresentanti e rappresentati. Il punto è un altro: per Concia non si dice “culo” quando si va a chiedere di essere trattati come gli altri, come le persone “normali”. Gay sì, ma dire che ti piace prenderlo in quel posto, meglio di no. Sono questi gli effetti collaterali di un gigantesco fraintendimento sui cuori rossi con il simbolo dell’uguaglianza.

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