La sindrome dell'apocalisse dei miliardari della Silicon Valley - THE VISION

Dalla guerra nucleare alla diffusione globale di un virus sconosciuto, dalla catastrofe ecologica al collasso del sistema globale: gli scenari apocalittici per il nostro pianeta sembrano infiniti. E così fantasiosi e ricorrenti che finiscono per perdere di credibilità. Negli ultimi 30 anni, da che ho memoria, la fine del mondo è stata ipotizzata più e più volte. La catastrofe doveva arrivare tra il 31 dicembre 1999 e il 1 gennaio del 2000, con il Millennium Bug. Poi c’è stata la profezia Maya del 21 dicembre 2012. Smentita anche questa, è stata posticipata all’autunno 2017. E siccome la fine del mondo ancora non c’è stata, si può continuare a riproporla: le prossime date sarebbero il 13 aprile 2036, per il passaggio di un asteroide, o il 2060, come scrive Isaac Newton in una lettera datata 1704.

La sola verità in mezzo a tutte queste profezie è che l’uomo, da sempre, teme ed è insieme affascinato dall’apocalisse. La raccontavano i testi sacri, la temevano i Romani, la aspettavano con timore nel Medioevo, e ci ritroviamo a parlarne ancora oggi. Alcuni di noi sono persino passati ai fatti: il movimento survivalism raduna tutte quelle persone, chiamate survivalist o preppers, che si preparano attivamente ad affrontare catastrofi naturali, cataclismi e situazioni di crisi globale. Non stupisce che il survivalism sia nato in America intorno la seconda metà del ‘900, tra la Seconda Guerra Mondiale e gli anni di equilibrio del terrore della Guerra Fredda. È l’era della bomba atomica, il momento in cui l’uomo scopre di poter essere, lui stesso, l’artefice dell’apocalisse. Basta guardare One World or None, il primo documentario sull’atomic scare del 1946: esplode il fungo atomico e il mondo sembra sgretolarsi davanti ai nostri occhi. Realtà e distopia, superstizione e fondati timori per il futuro si mescolano, generando panico e un naturale crescente interesse verso la fine del mondo, percepita come sempre più imminente. Di nuovo, non è un caso che in questi anni si siano moltiplicate le opere letterarie apocalittiche e post-apocalittiche.

Ho sempre pensato che il survivalism fosse un crogiolo di fanatismi religiosi e movimenti paramilitari, pronti a sfruttare la “sindrome dell’apocalisse” per radunare nuovi adepti e fare guerriglia. Un esempio su tutti, la setta dei Branch Davidians: nel 1993 si barricò in un ranch a Waco, in Texas, per prepararsi all’Armageddon ipotizzato dal folle profeta David Koresh. Accusati di vari reati come l’abuso di minori, la setta resistette per ben 50 giorni all’assedio delle autorità. Il tutto terminò con l’incendio del ranch, in cui morirono 76 persone, tra cui il maestro Koresh.

In realtà, il survivalism è un movimento molto più articolato ed eterogeneo, composto non solo da squilibrati, sette religiose e gruppi armati. Negli ultimi anni ha preso una direzione interessante e, a mio parere, piuttosto spaventosa. Il movimento si è infatti diffuso a macchia d’olio tra i miliardari d’America, ovvero tra coloro che credono ciecamente – o almeno così sembrava – nel progresso umano e nel sapere scientifico. Stiamo parlando dei leader della Silicon Valley, guru della tecnologia che con grande ottimismo hanno investito i propri miliardi nell’evoluzione dell’umanità, e che ora ne investono altrettanti per prepararsi come si deve all’apocalisse, quella dai tratti più secolarizzati. Uomini, sulla carta, totalmente immuni a qualsivoglia forma di teoria complottistica e fanatismo religioso.

In un reportage del 2017 pubblicato sul New Yorker, il giornalista Evan Osnos offre una panoramica sconvolgente dell’universo dei miliardari survivalist americani. Tra loro, per esempio, c’è Steve Huffman, co-fondatore e CEO di Reddit, che ha scelto di farsi curare chirurgicamente la miopia per evitare di dover dipendere dagli occhiali in caso di apocalisse. “Se finisse il mondo sarebbe impossibile per me trovare lenti a contatto, e senza quelle sarei perduto”. Nel dubbio, tiene anche sempre pronte due motociclette, diversi fucili, munizioni e scorte di cibo. C’è Antonio García Martínez, un nababbo quarantenne azionista di Facebook, che si è comprato due ettari di bosco in un’isola del Pacifico, attrezzandoli con generatori, pannelli solari, armi e munizioni. “Se la società cade in preda al caos, bisogna esser pronti. E oggi il rischio è molto alto”. C’è poi invece chi preferisce affidarsi a rimedi per così dire più tradizionali, come l’accumulo di cibo e acqua. Marvin Liao, ex dirigente di Yahoo, ha fatto scorta per sé e per tutta la sua famiglia. E non troppo fiducioso verso le armi a fuoco, ha deciso di prendere lezioni di tiro con l’arco.

Steve Huffman, CEO di Reddit. Foto © Jason Henry
Antonio García Martínez
Marvin Liao

Evan Osnos spiega che i miliardari survivalist preferiscono restare nell’ombra, non rendere pubbliche le loro preoccupazioni. Mi sembra più che naturale: chi vorrebbe essere etichettato un paranoico complottista nel mondo iper-razionale della Silicon Valley? Oppure: chi vorrebbe ammettere che c’è davvero qualcosa di cui noi, la massa, non siamo a conoscenza e di cui dovremmo tutti preoccuparci? La “sindrome dell’apocalisse”, mossa da paure più o meno razionali o meno, è esplosa a tal punto da diventare un vero e proprio business – ovviamente solo per ricchissimi. Sono ben pochi, infatti, a potersi permettere gli appartamenti (tre milioni di dollari ciascuno) del Survival Condo Project, il complesso abitativo a prova di attacco nucleare ricavato da un ex silos missilistico in Kansas. Chi possiede uno di questi appartamenti extra lusso (a quanto pare, tutti già venduti) gode dei seguenti vantaggi: sorveglianza armata, almeno cinque anni di autonomia energetica e alimentare, finestre LED con panorama personalizzabile, piscina olimpionica, clinica, palestra, cinema. Una sorta di prigione dorata e armata, protetta da un piccolo esercito in servizio 24/7. In caso di crisi, spiega Larry Hall, l’amministratore delegato del Survival Condo Project, “Una squadra speciale con furgoni blindati è pronta a raccogliere i residenti in un aeroporto a 30 miglia da qui, dove possono atterrare con i loro jet privati.” Il silos è dotato anche di una prigione interna, pensata come area di isolamento per chi dovesse avere un crollo psicologico. Insomma, Larry Hall sembra aver creato un rifugio dal perfetto equilibrio tra sfarzo e funzionalità.

Larry Hall

Survival Condo Project

Un’altra soluzione particolarmente apprezzata dai miliardari americani spaventati da una prossima fine del mondo è la Nuova Zelanda, una terra che si erge a paradiso terrestre incontaminato nell’immaginario collettivo. Da sempre meta prescelta in caso di crollo della civiltà, l’interesse verso la Nuova Zelanda è aumentato vertiginosamente dopo, guarda caso, l’elezione di Donald Trump. In un articolo del novembre 2016 intitolato “Trump Apocalypse”, il giornale New Zeland Herald riporta dati piuttosto interessanti: nella prima settimana di governo Trump, più di tredicimila americani hanno fatto domanda di registrazione presso le autorità della Nuova Zelanda, primo passo per poi chiedere il permesso di residenza. Ma perché proprio la Nuova Zelanda? Jack Matthews, il presidente americano di MediaWorks NZ, spiega così la scelta migratoria dei miliardari USA: “Se il mondo andasse in crisi, la Nuova Zelanda è uno dei pochi, forse l’unico, Paese del cosiddetto primo mondo che sarebbe da una parte sufficientemente isolato e dall’altra completamente autosufficiente, in termini di energia, acqua e risorse alimentari. La vita deteriorerebbe, ma non sarebbe compromessa.”

Jack Matthews

Rifugi oltreoceano, bunker pieni di provviste, silos antisismici, elicotteri pronti a partire e fucili in garage: al di là dei commenti e ironie che si possono fare sui rimedi anti-apocalisse per ricchi, è più interessante chiedersi perché i guru della Silicon Valley e i miliardari d’America siano tanto preoccupati per la fine del mondo. Come detto prima, è improbabile che credano alle tante panzane e profezie che circolano al riguardo. Finché ad armarsi per l’apocalisse sono le vittime di sette religiose e i fanatici delle armi, le paure restano infondate; anzi, vengono addirittura screditate. Ma se a cercare rifugio – investendo tempo e miliardi di dollari – sono le persone che governano indirettamente il mondo, questo è sicuramente un campanello d’allarme più forte e razionale.

Da un certo punto di vista, la Silicon Valley è un terreno particolarmente fertile per millenarismi e profezie 2.0. Il progresso dell’umanità dipende interamente dalle loro azioni, ed è più che naturale che l’ottimismo vada a braccetto con l’inquietudine per i suoi effetti indesiderati, più o meno prevedibili. Pensiamo all’intelligenza artificiale: se da una parte si preannunciano grandi rivoluzioni a livello sanitario e nei trasporti, dall’altra si teme di finire sotto la dittatura di macchine e robot. Come spiega al New Yorker Yishan Wong, ex CEO di Reddit e convinto survivalist, “La maggior parte delle persone si rende conto che la fine del mondo è un evento improbabile, ma gli apocalittici tecnologici sono soliti calcolare matematicamente il rischio.”

Ma quali sono questi rischi reali all’orizzonte? Che cosa sanno che noi non sappiamo?

Indipendentemente dalle risposte (ebbene sì, brancoliamo nel buio), la preparedness, l’arte di essere preparati a qualsiasi eventualità catastrofica, diventa una regola di vita per molti americani. Chi non può permettersi un bunker da tre milioni di dollari, può comunque far affidamento su My Patriot Supply, azienda specializzata nella vendita di prodotti alimentari di emergenza. Una scorta annuale di alimenti per quattro persone, con tanto di 720 dosi di caffè, costa intorno ai 6mila dollari e il tutto può essere conservato per ben 25 anni. Chi vuole invece attrezzarsi con le armi (siamo pur sempre in America), può partecipare ai Survival Expo & Gun Show, fiere dedicate alle tecniche militari di sopravvivenza.

Abbiamo mille ragioni per dubitare dei rimedi scelti dai survivalist d’America, ricchi o meno che siano. Ma non possiamo essere altrettanto scettici sui rischi che li motivano. Il Doomsday Clock, l’Orologio dell’apocalisse creato nel 1947 da un gruppo di scienziati e premi Nobel per segnare metaforicamente il tempo che ci separa alla fine del mondo, ci avverte che mancano 2 minuti. Non eravamo mai stati tanto vicini all’apocalisse dal 1953, l’anno in cui gli Usa testarono la prima bomba all’idrogeno. L’anno di massima distensione è stato invece il 1991, dopo il crollo dell’URSS, quando le lancette si fermarono alle 23:43. Oggi, nel 2018, l’orologio segna drammaticamente le 23:58: la sola certezza che rimane a noi comuni mortali è di essere sull’orlo del precipizio per un’infinta serie di motivi. E tutti molto razionali e concreti.

Segui Giulia su The Vision