Il Pride è divisivo e deve esserlo - THE VISION

Sul fronte dei diritti civili, dopo i passi in avanti frutto dell’impegno di Cirinnà & Co., il timore che la stagione politica in arrivo possa riportarci nelle acque paludose dei decenni passati è ormai certezza. A confermarlo è arrivata non solo la notizia che la Lombardia non darà il patrocinio ai prossimi Pride previsti per giugno in varie città della regione (a Milano il 30). A lasciare sgomenti sono soprattutto le motivazioni del neopresidente leghista Attilio Fontana, lo stesso della mirabile difesa della razza bianca.

Fontana si è dichiarato coerente con le sue scelte passate – nel 2016, quando era sindaco di Varese, aveva preso la stessa decisione – e ci ha tenuto a condividere la sua personale visione del Pride: “È una manifestazione divisiva,” ha detto, e in effetti è vero. Il Pride divide, da sempre, ma in modo diverso da quello prospettato dal presidente lombardo. Divide, ad esempio, i sostenitori del progresso civile e della cultura dei diritti da chi invece si ostina a difendere stereotipi e visioni retrograde di cosa debba essere l’amore, una coppia, una famiglia. Da questo punto di vista è certamente “divisivo”: ma rendere chiara la separazione tra gli oppressori e chi non vuole più essere oppresso non si può certo ritenere un male.

Attilio Fontana

Da un altro punto di vista, il Pride è invece decisamente inclusivo. Lo è, ad esempio, molto più del culto della famiglia cosiddetta tradizionale, che Fontana dichiara di voler sostenere apertamente, anche ripetendo l’imbarazzante iniziativa del 2016, l’illuminazione del Pirellone con la scritta “Family Day”. Culto, quello del fondamentalismo catto-biologico, che esclude e finge di non vedere che la società italiana in realtà è già andata oltre, piena com’è di famiglie omogenitoriali, allargate, non nucleari, con madri o padri single, multiculturali. Pride e Family Day si pongono su due piani antitetici. Il primo apre, chiedendo rispetto e riconoscimento per qualcosa che esiste già; il secondo chiude, imponendo un unico modello, volto a inibire tutte le forme altre di affettività, filiazione, famiglia.

Il nuovo presidente della Lombardia nell’intervista a Lettera43 ha sfoderato uno a uno i grandi classici della retorica dell’intollerenza: “Io sono eterosessuale,” ha detto, “ma non è che faccio una manifestazione per accreditare la mia eterosessualità”. Proprio non si capisce, leggendo, se Fontana finga di non comprendere o parli con qualche decennio di consapevolezza di ritardo. L’eterosessualità gode di un “accredito” secolare, se non millenario, c’è bisogno che qualcuno glielo ricordi? Non è difficile immaginare che non senta il bisogno di manifestare per sdoganarla, mentre è molto più chiaro perché ritenga fuori luogo gli eventi LGBT: si chiama “difesa del privilegio”.

È storia vecchia anche quel “Le scelte in questo campo devono restare personali”, che sempre Fontana ha inserito tra le motivazioni del negato patrocinio. Una scusa datata che purtroppo viene ancora usata da chi non si prende neanche la briga di informarsi sul linguaggio che nel 2018 è doveroso usare per parlare in modo civile di questioni di genere. L’orientamento sessuale non è una scelta. Una persona LGBT nasce LGBT, anche se ognuno lo mette a fuoco e lo accetta coi suoi tempi. È come è, con o senza Pride, con o senza diritti, con o senza matrimonio egualitario. Ed è per questo che tutto sta nel come si decide di trattare questo argomento a livello sociale, giuridico, istituzionale.

Confinare la questione dei diritti civili solo ed esclusivamente alla vita privata è una mossa dialettica e ideologica subdola: è un modo per relegare le persone LGBT e i loro diritti nel buio della camera da letto. È degradante trattare così la questione dell’identità personale, perché non si tiene conto che la vita affettiva necessita anche di riconoscimento sociale e di attenzione politica. Le persone LGBT non sono freak. Molte discriminazioni nei confronti delle persone omosessuali, bisex o trans vengono perpetrate sulla base di sospetti o giudizi basati esclusivamente sul loro aspetto e iniziano precocemente, quando si è bambini e il sesso è faccenda ancora molto lontana.

“Sbandierare è sbagliato,” dice Fontana, e se non stupisce la mancanza di originalità, queste scellerate dichiarazioni permettono almeno di chiarire che gli eccessi del Pride vanno anzi rivendicati e difesi. Sono pieni di significato, e sono “politici”: arrivano da lontano – dai mitici moti di Stonewall del ’69 – e hanno una funzione di liberazione dai dogmi che sono insieme estetici e “morali”.

L’esibizionismo delle parate LGBT è uno strumento storico di lotta: i cortei hanno lo scopo di esporre e rivendicare quello che alla società risulta scomodo. Il Pride indigna, provoca e lo fa di proposito. È capitato che abbia inquietato anche me a volte, sebbene io sia omosessuale e lo frequenti da anni: mi è capitato di sfilare accanto a persone che mettevano alla prova il mio gusto estetico e alcuni miei blocchi. Ma, riflettendoci, sono arrivato alla risposta che i cortei devono essere proprio celebrazioni di questo tipo, per assicurare spazio a ciò che è stigmatizzato senza un vero motivo, a ciò che pur non violando alcuna legge ne è  di fatto posto al di fuori dalla cultura del pregiudizio.

Che i Pride siano un tripudio di ostentazione è più che altro un luogo comune utile per tener viva la fiamma dell’omofobia: gli eventi LGBT sono eterosessuali friendly, ci partecipano famiglie, bambini, anziani per strada e sui balconi, altri attivisti. Si cammina e si balla insieme sotto il sole, ci si diverte, ma nella percezione condivisa di essere lì per qualcosa di molto serio. Il senso del Pride – impossibile da capire per chi non l’ha mai frequentato – è quello di dar vita a un modo diverso di stare insieme, un essere insieme che onori e ripari le offese, le ingiurie, e in qualche caso le botte.

È ipocrita, o forse solo gretto, ridurre il tema dell’uguaglianza a un gioco politico di appartenenze e consorterie. Chi lo fa dimostra di voler restare attaccato a un ordine gerarchico e simbolico che deve invece essere smantellato perché tossico e causa di soprusi e vessazioni, dal bullismo fino all’omofobia in famiglia. Tali prese di posizione alimentano la cultura dell’intolleranza, l’esaltazione del più forte e l’esclusione del diverso, cultura che ognuno pratica a modo suo. Il presidente della regione Lombardia negherà il patrocinio, il padre di famiglia sbatterà la figlia lesbica fuori di casa, il compagno di classe ridicolizzerà il bambino effemminato, l’adolescente in cerca di approvazione da parte del gruppo arriverà, come ancora accade, ad alzare le mani.

Rifiutarsi ancora oggi di riconoscere questa realtà può rivelarsi una posizione irresponsabile, soprattutto per un politico di primo piano, chiamato a gestire una delle regioni più importanti del nostro Paese. Lascia davvero perplessi che non ci si renda conto che questi temi non dovrebbero avere molto a che vedere con l’appartenenza politica. Nel 2018, il sostegno alla comunità LGBT dovrebbe arrivare anche da destra, cosa che è effettivamente già successa e proprio in Lombardia, almeno fino al 2017, con l’insubordinazione del vicepresidente del Consiglio, il leghista Cecchetti, grazie al cui voto favorevole il patrocinio della regione dal 2014 c’era sempre stato – tranne l’anno scorso, quando Cecchetti ha deciso forse di evitarsi le usuali polemiche col suo partito usando l’alibi del ddl Cirinnà.

Fabrizio Cecchetti

E anche pensare al Pride come a un evento fatto per “ottenere diritti” in realtà ne sminuisce la portata. Il Pride stesso è un diritto: è importante di per sé, non è solo un mezzo per ottenere qualcosa. I suoi eccessi sono una delle cose per cui è ancora importante battersi. Perché alle parate LGBT si agisce la liberazione del corpo e della personalità. Il suo tratto principale è l’inclusività massima e la riduzione del giudizio al minimo. Chiudere le porte al Pride significa chiuderle alla libera circolazione delle differenze. Il movimento LGBT, con tutte le sue ostentazioni, smonta ciò che abitualmente riteniamo sia o debba essere la nostra identità e soprattutto quella degli altri.

È comprensibile, e anzi auspicabile, che il Pride risulti inopportuno a chi ha una visione asfittica della società. Deve essere così. L’evento LGBT per eccellenza dimostra che gli altri esistono – scomodi, incontrollabili, disordinati – e che non possono essere rimossi dall’arredo del mondo. Il Pride è nato per infastidire e per dividere, è una battaglia travestita da festa. Che si possa lottare ballando e cantando vestiti, o svestiti, nel modo in cui si preferisce, è una delle cose per le quali bisogna ringraziare le tante persone LGBT che negli anni hanno contribuito a rinnovare il lessico e l’immaginario politico, in qualche caso anche rimettendoci la vita, mostrando al mondo l’importanza di essere accettati senza bisogno di amputare le parti della nostra personalità che gli altri hanno imparato a ritenere intollerabili.

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