Dobbiamo ancora imparare a intervistare i figli dei mafiosi - THE VISION

Non è ancora passato un mese della morte di Salvatore Riina e tutti continuano a sentire il bisogno di commentare l’uscita di scena dell’uomo che fino all’ultimo giorno ha incarnato la mafia stragista. Si è parlato dei possibili effetti di questa morte, della sconfitta della strategia di zu Totò. Si è scritto che tutto sommato Riina ha perso e ha affossato Cosa Nostra. Si è detto che in fin dei conti era un ignorante. Si è scritto e detto tanto. E allo stesso tempo troppo poco. Sembra che ci si sia dimenticati della – ancora presunta – trattativa Stato Mafia, dei leggendari incontri coi baci, delle “menti raffinatissime” mai trovate, dei “Mi riservo di fare i nomi dei politici. Ora non posso, lo Stato non è pronto”

Non è ancora passato un mese, ma sembra proprio che tutto ciò che riguarda il Fu Belva sia entrato a far parte di una sceneggiatura poco più che folkloristica. Si è preferito portare l’attenzione su ciò che fa colore: i commenti sui social che manifestavano vicinanza alla famiglia per il lutto – con Facebook che si è anche scusato per aver rimosso i post di condoglianze – oppure la trovata delle cialde di caffè Zù Totò. E proprio l’intricatissimo, nonché fondamentale, affaire caffè è stato lo spunto per la Iena Giulio Golia e per il suo servizio intitolato “La verità della figlia di Riina”. Un titolo che rende bene l’assoluta parzialità di questa ennesima pietra miliare del programma di Italia1. È necessaria una premessa. Sin dalle ore immediatamente successive alla morte del boss di Cosa nostra, la gestione della comunicazione di casa Riina è passata dalle sempre composte mani di Ninetta Bagarella, la moglie del boss di Corleone che in precedenza si è spesa molto per difendere il marito, a quelle di Maria Concetta. È stata lei, a poche ore dalla morte del padre, a esporre una rosa nera come foto profilo Facebook, accompagnata dall’immagine di una ragazza che portando il dito alle labbra fa segno di tacere. È stata Maria Concetta Riina a prendere ostinatamente le difese del padre, descritto come “un lavoratore ingiustamente accusato”, contro il quale parlano solo “calunniatori malvagi e senza scrupoli”. Ed è stata sempre lei a respingere l’assalto dei giornalisti davanti all’ospedale di Parma dove è stata eseguita l’autopsia del padre. “Non ho niente da dire. Vi denuncio. Per cortesia smettetela”, ha ripetuto con fermezza. Ecco, non è un caso che come prima cosa la signora Maria Concetta Riina manifesti a Giulio Golia il timore di esser “tergiversata, non da voi ma da tutto il contesto mediatico”. Insomma, la signora con i giornalisti non parla, ma Golia giornalista non è e allora sì, possiamo parlare ma con il mio avvocato vicino, molto vicino.

Maria Concetta Riina

E così la signora Riina in Ciavarello parla delle cialde che “erano solo un’idea per fare qualche soldo. Noi non ne abbiamo soldi, siamo con quattro mesi di affitto arretrato, senza lavoro, senza attività. Perché il patrimonio che dicono tutti di mio padre segreto è talmente segreto che pure per noi è segreto”. Di suo padre Totò – che fra i vari soprannomi vantava anche quello di “La Belva” – la signora Maria Concetta dice: “Con me era una persona buona, io non potrò mai parlare male di lui e noi non possiamo pagare le colpe di tutti, solo per essere i suoi figli.” E, per dare l’idea di quanto la sua fosse una famiglia normale, aggiunge che “quando ci fu la strage di Capaci l’abbiamo saputo dal tg. Eravamo tutti sul divano. Mio padre era normale, non era né preoccupato né felice. E non è vero, come hanno detto, che ha brindato con lo champagne”. Una normalissima famiglia seduta sul divano a guardare il telegiornale. Osservando il servizio ci si accorge immediatamente che la signora Concetta risponde sempre guardando prima il suo avvocato, e non perché sia una sprovveduta imbarazzata da un microfono e una telecamera. Tutt’altro.

Come ha fatto puntualmente notare – unico fra tutti – Salvo Palazzolo su la Repubblica, i giorni dopo la morte del boss sono giorni difficili per la famiglia Riina. I nuovi guai giudiziari di Salvuccio, gli arresti domiciliari per Antonino Ciavarello, marito della figlia maggiore Maria Concetta, per una una condanna per truffa relativa a fatti avvenuti a Termini Imerese nel 2009. E le indagini sul tesoro dei Riina, altro grande segreto. È quindi in questo contesto che la sorella Maria Concetta accorre in aiuto. Per i Riina infatti la comunicazione è da tempo un ambito di importanza strategica. Proprio Salvuccio aveva scritto un libro, e si era anche presentato a Porta a Porta, mettendo in scena una delle pagine più grottesche della televisione e del giornalismo italiano. Adesso, invece, la più grande delle figlie di casa Riina è riuscita a dire tutto ciò che doveva attraverso le Iene e senza che nessuno se ne sia accorto. E come dicevo, non è un caso che a darle il la sia proprio l’avvocato chiamato a sostegno: è solo quando questa la sprona che Maria Concetta parla. Ma non all’intervistatore, piuttosto a chi sa di dover ascoltare.

“Io non posso prendere le distanze da mio padre,” dice. “Non lo so se era uno stinco di santo, non lo devo giudicare io, sarà il Signore a giudicarlo”. Come sottolineato da Salvo Palazzolo, il messaggio sottinteso appare piuttosto essere: “State tranquilli voi, il cognome Riina è sempre garanzia di riservatezza rispetto alle cose del passato. Nessuno farà ammissioni o parlerà. I Riina riconoscono solo la giustizia di Dio”. Il secondo messaggio sembra essere più un monito che una rassicurazione. Mentre l’ignaro Golia tenta un tackle in scivolata spezza gambe e cuori, mostrando alla figlia del boss le foto di alcuni morti di mafia nello strenuo tentativo di far crollare Maria Concetta, questa tira un’altra stoccata: “Mio padre ha fatto comodo a tante persone”, e poi: “Quando uscivamo li vedevamo i posti di blocco, ma non ci fermava nessuno”. Maria Concetta sembra dire, neanche troppo velatamente, che suo padre aveva appoggi e complici all’interno delle istituzioni che ne hanno agevolato la latitanza per poi abbandonarlo. E si ha l’impressione che si stia rivolgendo proprio a quelle istituzioni: ricordatevi che io so, anche se per il momento non sto parlando.

Questo monito lo ribadisce ricordando uno di quei passaggi che con la morte del padre sembrano essersi fatti più opachi: il 15 gennaio 1993, giorno dell’arresto del capo dei capi. “Abbiamo sentito alla televisione che mio padre era stato arrestato. Abbiamo raccolto le nostre cose, chiamato un taxi e siamo andati, mia madre e i miei fratelli, a Corleone” dice Maria Concetta. La Iena probabilmente non se ne accorge neanche, ma la signora Maria accenna a uno dei più discussi misteri legati alla latitanza e alla cattura del capo di Cosa Nostra – sfociato in un processo concluso con la piena assoluzione degli imputati, il capitano Sergio De Caprio e il generale Mario Mori, nel ’93 vicecomandante del Ros, accusati di avere favorito Cosa nostra. Maria Concetta Riina sta candidamente dicendo che, dopo l’arresto di suo padre, la famiglia ebbe tutto il tempo di ascoltare la notizia in televisione, fare i bagagli e lasciare in tranquillità la casa in cui vivevano. Nessuno perquisì la villa di via Bernini. Totò Riina infatti venne arrestato mentre era in macchina in via Regione Sicilia, e chi di dovere ebbe tempo di mettere al sicuro l’archivio del boss, ovvero quella che sembra essere tuttora la più potente arma di Cosa Nostra. Il servizio si chiude con Maria Concetta che dice “non so se era un pupazzo, di sicuro solo non poteva essere” e le immagini che compaiono sono quelle del padre che sorride alle telecamere, scortato dai poliziotti.

Ancora una volta la televisione si è messa a disposizione non di chi la guarda, ma di chi attraverso di essa comunica per i suoi scopi. Poco, in realtà, ma andando a colpire con precisione dove vuole. Sembra ingiusto addossare tutte le colpe alle Iene: sono sicuro che l’ingenuità con cui vengono trattati questi argomenti sia la stessa che spinge a non controllare se dei video di suicidio siano veri o falsi, ad “appassionarsi a storie di malattie gravi” dando per buona una pratica medica senza alcun fondamento scientifico, o a spezzettare in un mese di puntate un’inchiesta basata su testimonianze poi grandemente ridimensionate da alcuni degli stessi testimoni (oltretutto in programmi dello stesso gruppo Mediaset). Certo è un’ingenuità che fa fare ascolti, ma sono sicuro che i calcoli sullo share non c’entrano nulla.

Ciò che mi preoccupa di più è che, a eccezione di Salvo Palazzolo e dell’associazione familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, nessuno abbia richiamato l’attenzione sulle pericolose parole della figlia maggiore di casa Riina. E mi preoccupa soprattutto perché l’enorme dubbio che questi intervistati riescano più che altro a soddisfare i propri scopi era emerso con chiarezza con l’ospitata di Salvuccio Riina a Porta a Porta. In quel caso però l’intero carrozzone di media, opinionisti e intellettuali si era alzato gridando allo scandalo. Dall’antimafia alla politica, dai parenti delle vittime fino alla FNSI, insieme all’immancabile Saviano: la condanna verso Vespa e la Rai era stata unanime. Ma era l’aprile del 2016. Totò u curtu era ancora vivo, lanciava minacce ai magistrati dal carcere ed era da molti considerato ancora il vero capo di Cosa Nostra.

Adesso però, dopo un mese dalla morte del capo dei capi, fra messaggi social, cialde di caffè e servizi delle Iene, pian piano ci stiamo convincendo che alla fin fine questi Riina sono poco più che personaggi folkloristici. E questo sì che fa paura.

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