Come Giuseppina Ghersi è stata violentata dal giornalismo italiano

“Stupro di Rimini, Butungu ha la tubercolosi: vittime contagiate?

“26enne accoltella i clienti di un supermarket. Prima di colpire avrebbe gridato Allah Akbar”

“Una targa per ricordare la tredicenne Giuseppina Ghersi, forse stuprata e uccisa da alcuni partigiani”

Cosa hanno in comune questi tre titoli di articoli usciti negli ultimi mesi? Prima di tutto, il carattere ipotetico, l’utilizzo del condizionale, dei forse e dei punti di domanda. In secondo luogo, il fatto che la costruzione ipotetica della notizia è l’ultima delle cose che ci rimane in testa. Infine, il fatto di aver sollevato temi poi prontamente sconfessati nelle ore successive.

Mai come oggi il condizionale è il tempo verbale dei media, che ne fanno un utilizzo selvaggio per costruire titoli e notizie capaci di attirare l’attenzione del lettore. Il condizionale è il nuovo indicativo e nella logica del clickbait a interessare non è la certezza della notizia, quanto la possibilità di creare la notizia all’interno di contesti non verificati. L’uso dei sarebbe, dei forse, dei probabilmente, diventa dunque l’escamotage per coprirsi le spalle, per ricordare tra le righe che quello che si sta dicendo non è detto che sia vero, ma intanto la notizia la si diffonde, con un’opera di ingegneria lessicale capace di mettere in secondo piano il suo stesso carattere ipotetico. Spesso poi l’uso dei forse e dei probabilmente cade, perché stona nel testo. È a quel punto che si perde l’ultimo fragile appiglio alla dignità professionale e si finisce automaticamente nella vasta e complessa area delle fake news. Ed è qui che ci troviamo ora.

L’esempio migliore per descrivere questo processo è quello relativo alla vicenda di Giuseppina Ghersi, la ragazzina tredicenne “stuprata”, “violentata” e “abusata” dai partigiani nel 1945. Nell’articolo del 13 settembre che ho citato in precedenza, Mario De Fazio parla di Giuseppina Ghersi, “forse stuprata e uccisa da alcuni partigiani savonesi pochi giorni dopo la Liberazione”. Secondo De Fazio, la ragazzina fu uccisa “nei pressi del cimitero di Zinola, dove è sepolta. Forse perché aveva genitori filo-fascisti, o solo perché aveva ricevuto un encomio per un tema su Mussolini o, sostiene qualcun altro, perché era – a tredici anni – una spia collaborazionista”. Il 15 settembre un articolo del Corriere della Sera titola: “Targa per Giuseppina Ghersi, la ragazzina violentata e uccisa dai partigiani: scoppia la polemica”. Il pezzo parla dell’iniziativa del Comune di Noli di porre una lapide commemorativa della ragazza, su proposta di un consigliere comunale, accolta dal sindaco di centrodestra. L’ANPI di Savona si è opposta alla cerimonia, con scontri interni tra favorevoli e contrari. L’articolo di Erika Dellacasa sostiene che “una ricostruzione [della vicenda] è contenuta nell’esposto di sei pagine che il padre di Giuseppina consegnò alla Procura di Savona qualche anno dopo chiedendo un’indagine. Giuseppina, tredicenne, fu prelevata da tre partigiani, picchiata e seviziata, forse violentata”. Per Dellacasa scompare quel ventaglio di moventi paventati da De Fazio: “Giuseppina aveva vinto un concorso a tema e aveva ricevuto una lettera di encomio da Benito Mussolini: questo uno dei più gravi indizi contro di lei accusata di essere una spia delle Brigate Nere”.

A corredo dell’articolo, poi, compare una foto di una ragazzina che secondo l’autrice dell’articolo sarebbe Giuseppina Ghersi: “la foto del suo arresto la ritrae con il volto imbrattato di scritte, le mani legate dietro la schiena, prigioniera fra uomini adulti armati e sorridenti”. L’articolo, che oggi non presenta più quella foto, rimanda poi a un altro pezzo, sempre del Corriere, firmato da Antonio Carioti: “Giuseppina Ghersi, uccisa dai partigiani: fatale una lettera del Duce”. Qui si racconta della giovane Giuseppina, che nel 1945 “di certo è una fervente fascista, per come lo può essere una ragazzina così giovane, e per questo finisce travolta da vicende più grandi di lei: stuprata, seviziata e uccisa”. Giuseppina ha subito violenza sessuale, non c’è dubbio secondo la ricostruzione di Carioti, che sottolinea come il fatto sia stato commesso “probabilmente da partigiani comunisti”. Sulle cause dell’uccisione, il giornalista resta vago: “Alcuni affermano che l’unica colpa di Giuseppina, iscritta al Gruppo femminile fascista repubblicano di Savona, era aver scritto una lettera inneggiante a Mussolini, per via della quale aveva ricevuto, il 18 gennaio 1945, un messaggio di plauso dalla segreteria del Duce. Ma c’è anche chi la descrive come un’affiliata alle Brigate nere (forse come mascotte), che girava armata per il quartiere savonese di Fornaci, o addirittura come una spia che avrebbe fatto arrestare diversi antifascisti”.

L’articolo di Carioti, così come quelli di Dellacasa e De Fazio, si presentano come un piccolo festival dei forse e dei probabilmente, conditi da qualche verbo al condizionale. Ciò che è certo dai titoli e dai contenuti, soprattutto del Corriere, però, è che la ragazzina immortalata nella foto sia stata violentata e stuprata. Sulle motivazioni c’è chi ha idee ben precise e chi prende in considerazione più ipotesi. Nel frattempo, dopo il primo articolo del Secolo XIX, si moltiplicano i contributi di altre testate che riprendono la notizia: da “Giuseppina Ghersi, stuprata e uccisa da partigiani a 13 anni, la targa diventa un caso” dell’Ansa, a Noli, targa a 13enne violentata e uccisa dai partigiani. L’Anpi si divide. I vertici nazionali: “Noi sempre contro vendette” del Fatto Quotidiano, fino al “Una targa per Giuseppina Ghersi, la 13enne violentata e uccisa dai partigiani” dell’Huffington Post.

Quello che ci restituisce questa grande mole di articoli è una storia venduta come certa, verificata. Il fatto che alcuni aspetti siano poco chiari non interessa ai giornalisti, che nella maggior parte dei casi finiscono addirittura per rinunciare all’utilizzo dei forse e dei verbi al condizionale. La notizia è ormai talmente matura che non ce n’è più bisogno. Sul web e sui social si scatena intanto il dibattito, con la presunta foto di Giuseppina Ghersi che viene ricondivisa centinaia di volte – in particolare da personalità vicine all’estrema destra. Ma è proprio questa foto il primo elemento del “caso Giuseppina Ghersi” a non convincere. Come sottolinea la Wu Ming Foundation, “questa foto circola da anni, riferita a vari contesti, e NON ritrae Giuseppina Ghersi né alcunché di collegato a quell’episodio”. Basta fare una ricerca su Getty Images per scoprire che la foto è stata scattata a Milano, non a Noli, nel 1945, e riguarda una scena di umiliazione pubblica a cui venivano sottoposti i collaborazionisti del nazifascismo. Per quanto deprecabile, la scena fotografata non è quindi riconducibile a Giuseppina Ghersi.

Al di là del materiale fotografico, a questo punto sconfessato, vari blog forniscono altre prove che confermerebbero la veridicità dello stupro punitivo nei confronti di Giuseppina Ghersi – in particolare l’esposto del padre della ragazzina, Giovanni Ghersi. Tra questi, spiccano: la pagina di tal Roberto Nicolick, ex professore di Educazione fisica, in passato vicino al Movimento Sociale Italiano e poi alla Lega Nord; la pagina di un blog dedicato alla vicenda; un video del gruppo neofascista “I Ragazzi Del Manfrei”; un articolo del 2008 de Il Giornale; una foto comparsa sul forum Patriottismo. Mettendo a confronto questi documenti, Nicoletta Bourbaki, gruppo di lavoro sul revisionismo storiografico in rete legato alla Wu Ming Foundation, ha messo in mostra le incongruenze che li contraddistinguono. Un buon riassunto delle conclusioni di Nicoletta Bourbaki è quello fatto da ValigiaBlu: “Non c’è corrispondenza di date tra la trascrizione dell’esposto di Giovanni Ghersi riportate sul forum Patriottismo (settembre) e da Roberto Nicolick (aprile). Inoltre, nella trascrizione di Patriottismo non si fa riferimento al cimitero di Zinola”. In secondo luogo, “nell’esposto, Ghersi parla di natura estorsiva (e non politica) del sequestro”. Inoltre, “nessuno fa riferimento a quella che è stata definita la causa scatenante dell’uccisione di Giuseppina Ghersi, il tema scolastico lodato da Mussolini”. Ancora, “né il padre né la madre della tredicenne parlano di uno stupro subito dalla figlia. Viene descritto un pestaggio e solo in seguito i due riferiscono di aver saputo dell’uccisione”.

Eppure, nonostante l’assenza nella documentazione ufficiale di questi elementi, nelle ricostruzioni successive si introduce lo stupro di Giuseppina Ghersi come fatto accertato. Come spiega ancora il collettivo Nicoletta Bourbaki, il primo a parlare di stupro è Stelvio Murialdo, classe 1935 e fondatore de La Destra di Savona. In un pezzo apparso nel 2008 su Il Giornale, racconta di una sua intervista alla zia di Giuseppina Ghersi, che gli avrebbe detto: “Era ridotta in uno stato pietoso; mi disse di aver subìto ogni sorta di violenza… (a questo punto tacque per pudore su tante nefandezze che la decenza lascia solo intuire)”. Quello tra parentesi è il commento di Murialdo, che dunque immagina una violenza sessuale non presente nella documentazione e in qualche modo solo accennata dalla zia. Murialdo è lo stesso che in altri documenti dichiara di aver riconosciuto il corpo della ragazzina morta, nel 1945, presso il cimitero di Zinola. Il problema è che, come sottolineato in precedenza, non c’è alcuna prova nella documentazione ufficiale che il corpo sia stato trovato in quel luogo – questo appare solo nella “versione restaurata” dell’esposto di Giovanni Ghersi pubblicata da Roberto Nicolick. Inoltre, Murialdo stesso prima parla di riconoscimento e poi definisce Giuseppina “quella sconosciuta ragazza”, dunque non la conosceva.

Il lavoro di ricostruzione ha dunque dimostrato che dello stupro si parla solo a partire dal 2008, dopo “un’intuizione” di Murialdo. Su date e luoghi della morte di Giuseppina, si sommano testimonianze scritte e orali diverse. La documentazione, inoltre, parla di natura estorsiva e non politica della morte. La foto rimbalzata sul web, infine, è falsa. Eppure, nelle ultime settimane le testate italiane ci hanno mostrato la presunta foto di Giuseppina, raccontandoci l’incredibile vicenda della ragazzina “stuprata” e “uccisa” perché vicina agli ambienti fascisti. Il vero paradosso è che perfino l’ANPI si è ritrovata parte di questo processo: in una nota del 15 settembre – diramata dalla segreteria nazionale, in contrasto con l’ANPI Savona che, territorialmente più vicina ai fatti e alla loro memoria, ha sempre sconfessato la veridicità delle più “recenti” ricostruzioni dell’uccisione di Giuseppina – scrive di aver “sempre condannato gli atti di vendetta e violenza perpetrati all’indomani della Liberazione. E lo fa anche oggi rispetto alla vicenda terribile e ingiustificabile dello stupro e dell’assassinio di Giuseppina Ghersi”. Questo sembra ribaltare tutto quanto ho scritto finora: se perfino l’ANPI si ritrova a condannare la violenza sessuale, c’è poco da discutere. Eppure, come sottolinea anche Nicoletta Bourbaki, il comunicato “scarno e sulla difensiva” non fa altro che “peggiorare la situazione”, che rimane priva di verifiche e approfondimenti. La nota dell’ANPI si presenta dunque più come una risposta al fuoco incrociato di bufale che non come una prova della veridicità del fatto: in fondo non aggiunge nulla di nuovo ai punti oscuri che ho sollevato in precedenza.

Lo stupro di Giuseppina da parte dei “partigiani comunisti” si è trasformato in un fatto certo e la violenza sessuale è divenuta essa stessa la notizia. Il tutto è stato poi condito – non sempre – da qualche forse, alcuni probabilmente e una manciata di tempi verbali al condizionale, per dire: tutto quello che vi stiamo raccontando è vero, dobbiamo giusto chiarire un paio di punti ma nulla di serio. E invece serio lo è. Di tutta questa storia, infatti, Nicoletta Bourbaki sottolinea che i pilastri su cui è stata mediatamente costruita la notizia sono “l’arbitrarietà dei collegamenti, la (voluta) vaghezza e l’ambiguità dei riferimenti temporali”, che sono poi quegli stessi pilastri che permettono alle fake news di generarsi e diffondersi. Sulla vicenda di Giuseppina Ghersi si è creata una piccola catena di Sant’Antonio di falsità che ha finito per auto-alimentarsi e che ha coinvolto anche l’ANPI. Sono stati via via aggiunti nuovi elementi, senza che venissero verificati, per poi essere ripresi come veri dalle pubblicazioni temporalmente successive. Piuttosto che mezzi di verifica delle fonti, gli articoli di giornale sono così diventati essi stessi la fonte – con la copertura dei forse e dei probabilmente nascosti nel testo, quasi mai presenti nel titolo.

Il dramma delle fake news ci riguarda tutti, perché ci restituisce un mondo diverso da quello in cui realmente ci troviamo. È tempo di smetterla con quello stile che fa dell’uso del condizionale e delle costruzioni ipotetiche il meccanismo velato per dare in pasto all’opinione pubblica storie che poi, nella realtà dei fatti, non esistono. Solo così si potrà risollevare dalla deriva un certo tipo di giornalismo. Forse.

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