Una generazione a partita IVA - THE VISION

Da qualche giorno ho iniziato a muovermi, molto lentamente, per aprire la Partita IVA. Lavoro come giornalista freelance da un paio d’anni e mi devo ormai rassegnare al fatto che faccio parte di quel piccolo esercito italiano di persone che svolgono un lavoro non dipendente, che poi tanto piccolo non è. La mia attività di giornalista in questi anni è stata intervallata da esperienze in agenzie di comunicazione, collaborazioni provvisorie che anche qualora fossero diventate stabili avrebbero a loro volta richiesto di lavorare in forma autonoma. Aprire una Partita IVA è quindi un passo che volente o nolente devo affrontare, qualunque sarà il mio futuro, per poter sopravvivere nel complicato mondo dell’editoria e della comunicazione.

Secondo i dati diffusi da Truenumbers nel 2016, nel nostro Paese i lavoratori freelance erano 3.450.900, il 13,8% della popolazione attiva, un dato superiore alla media europea, che risulta del 9,2%. Questa percentuale coinvolge giornalisti, fotografi, artisti, braccianti, avvocati, consulenti aziendali, commercialisti e molte altre categorie. Per “lavoro autonomo” si intende tutto ciò che impegna a svolgere in prima persona un’opera o un servizio senza vincolo di subordinazione; con “libero professionista” invece si indica un lavoratore che, avendo una professionalità acquisita tramite percorsi di istruzione come la laurea, fornisce gli stessi a vari clienti senza avere datori di lavoro. “Non tutte le libere professioni richiedono necessariamente l’iscrizione a un Albo,” spiega pensionilavoro.it, “è la legge a definire le cosiddette ‘professioni protette’, vale a dire quelle attività il cui esercizio è subordinato all’iscrizione ad appositi albi, collegi o elenchi, nonché all’eventuale superamento di un Esame di Stato”. La protezione si concretizza in una garanzia contro forme di subordinazione lavorative, che non vengono – teoricamente – riconosciute e accettate.

Sono due i fattori alla base di questi trend di crescita: da una parte le sempre minori opportunità lavorative per i millennials, che spinge a crearsi lavori da sé; dall’altra la tecnologizzazione della società.

Nel primo caso, le migliaia di curricula dei neolaureati inviati a tappeto a centinaia di aziende e istituzioni si risolvono in un’orda di giovani che restano bloccati nella palude della disoccupazione (più o meno) giovanile, a causa di una disponibilità di posti di lavoro che non corrisponde alla domanda. Fin da bambino ho desiderato fare il giornalista, ma dopo la laurea in scienze politiche ho fatto esperienze internazionali e italiane lavorando soprattutto nei dipartimenti di relazioni esterne di alcune realtà istituzionali. A essere sincero non mi sarebbe dispiaciuto continuare in quella direzione, abbandonando il sogno del giornalismo in vista di una forse più probabile prospettiva di solidità lavorativa. Ma anche lì gli stage sottopagati con orari infernali si sono protratti per un paio di anni e ho ricevuto troppe proposte di lavoro affascinanti, senza mai nessuna prospettiva in termini di assunzione. A questo punto sono tornato a lanciarmi nel mondo del giornalismo freelance, che almeno era quello che mi piaceva fare davvero, senza compromessi, accettandone però tutte le insicurezze. Molti altri ragazzi si sono ritrovati nella mia stessa situazione, abbracciando lavori di ogni tipo – rigorosamente autonomi – per far fronte alla difficoltà di ottenere un’assunzione vera e propria in linea con il proprio percorso di studi.

Negli Stati Uniti il numero di freelance è ancora più imponente. Secondo un’indagine dell’anno scorso della Freelancers Union, essi costituiscono al momento il 35% dei lavoratori americani, una percentuale che entro il 2020 dovrebbe toccare il 50%. Tra pochi anni i lavoratori non dipendenti diventeranno dunque la maggioranza negli Stati Uniti, un elemento che racconta bene le trasformazioni in atto nel mondo del lavoro.

Commentando questa situazione su Forbes, Brian Rashid parla dei neolaureati che “pagano centinaia di migliaia di dollari per un’istruzione e un pezzo di carta. Spediscono il proprio curriculum a decine di aziende e aspettano una risposta. Poi aspettano ancora. Continuano ad aspettare, aspettare e aspettare. Mentre aspettano, le loro spese non si fermano. I livelli di stress aumentano […]. La crescita dei freelance negli Stati Uniti mostra che i giovani professionisti sono pronti per il cambiamento. Una volta stigmatizzata come sinonimo di pigrizia o disoccupazione, la parola freelancer sta cominciando a perdere queste connotazioni negative”. Il boom delle partite IVA, soprattutto tra i più giovani, è dunque prima di tutto una risposta obbligata più che voluta a un mercato del lavoro sempre più fumoso e traballante.

Oltre a questo, c’è un altro fattore che sta spingendo nella direzione dell’autonomizzazione dei lavoratori. È il peso sempre più forte che le startup e la sharing economy giocano nel contesto attuale, in una “uberizzazione” dell’economia che rende liberi professionisti quelli che fino a poco tempo fa erano comuni cittadini: autisti, proprietari di case, cuochi, idraulici, fattorini e via dicendo. “Il freelancing sta diventando una norma consuetudinaria nel mondo delle startup. Dal momento che sempre più startup si servono di milioni di liberi professionisti, sempre più persone vogliono entrare a far parte della generazione dei freelance,” scrive Telecrunch.

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L’autonomizzazione del lavoro in questi anni è dunque tanto la risposta ai numeri da capogiro della disoccupazione giovanile – in Italia quest’estate il 35,5% – quanto un tentativo di cavalcare l’onda delle trasformazioni economiche e sociali in corso, inventandosi lavori lì dove fino a poco tempo fa non ce n’erano. Uno sprazzo di sereno per una categoria spesso bistrattata, che lascia comunque l’amaro in bocca. Se è positivo che il freelance stia finalmente acquisendo una sua dignità professionale, resta il fatto che la vita di un libero professionista corrisponde spesso all’inferno.

Secondo un’elaborazione dei dati Istat da parte della Cgia di Mestre, tra le famiglie che possono contare solo su redditi da lavoro autonomo, una su quattro nel 2015 si è trovata in seria difficoltà economica. Per i nuclei in cui il capofamiglia ha come reddito principale la pensione, il rischio è del 21%, mentre per quelle che vivono con un stipendio da lavoro dipendente il tasso è del 15,5%. Si vive meglio di pensione che di lavoro autonomo insomma. Un caso eclatante della differenza tra lavoro dipendente e indipendente viene proprio dal mondo dei giornalisti. Un rapporto dell’associazione Lsdi (Libertà di stampa diritto di informazione) ha evidenziato che “nel 2015 i giornalisti freelance guadagnano un quinto dei colleghi dipendenti e dichiarano in 8 casi su 10 un reddito inferiore ai 10mila euro annui (media di 11.241 euro l’anno)”.

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L’accesso alla previdenza sociale per i freelance passa dall’iscrizione alla gestione separata dell’Inps. Sono circa in 300mila a esserne iscritti, il 23% del totale, ma la discrepanza tra costi e benefici sta facendo meditare in molti sull’utilità di questo sistema. “A tutti questi lavoratori è imposta un’aliquota previdenziale del 27,72%, destinata ad aumentare,” scrive A1life.it, “In pratica, quasi un terzo del reddito andrà alla gestione separata dell’Inps. Il punto è che, a fronte di un’aliquota così alta, che supera anche quella di altre casse, viene restituito ben poco in termini di assistenza. Solo lo 0,72% della contribuzione è dedicata, infatti, a maternità, congedi parentali, malattia. Quindi, un autonomo che si ammala, ad esempio, ha tutele minori rispetto a un collega lavoratore-dipendente”. Per i freelance è dunque vietato ammalarsi, come titola anche un articolo dello scorso febbraio de La Stampa.

Di fronte a questa situazione, di tanto in tanto si fanno tentativi per offrire maggiori sicurezze alla vita spesso precaria delle partite IVA. L’ultima iniziativa legislativa in ordine di tempo è il Jobs Act autonomi, che predispone “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale” e riguarda circa 2 milioni di persone. Il provvedimento, tra le altre cose, amplia le tutele previdenziali dei prestatori d’opera, anche occasionali, dei lavoratori autonomi e dei professionisti in caso di maternità, malattia e infortunio. L’indennità di disoccupazione viene estesa a nuove categorie professionali, mentre si introduce il limite massimo di 60 giorni per i pagamenti da parte dei committenti. Si incentiva inoltre a investire sulla propria formazione, imponendo un tetto di 10mila euro deducibili per le spese di iscrizione a master, corsi di formazione o aggiornamento, convegni e congressi, oltre alle relative spese di soggiorno e viaggio. Infine, nei centri per l’impiego vengono introdotti sportelli dedicati al lavoro autonomo per favorire l’incontro fra domanda e offerta.

L’urgenza di mettere mano, anno dopo anno, alla legislazione dei lavoratori autonomi è un buon indicatore della precarietà che spesso accompagna questa categoria. Il recente decreto introduce misure importanti, ma non basta. Come ha sottolineato la Rete Professioni Tecniche a poche ore dalla pubblicazione della nuova legge in Gazzetta, “Restano ancora in sospeso l’equo compenso, la tutela dalle clausole vessatorie, l’affidamento al tribunale del lavoro delle controversie tra professionisti e committenti, l’inserimento della rappresentanza ordinistica nel tavolo tecnico di confronto permanente sul lavoro autonomo”.

Da decenni si combatte una guerra di decreti e iniziative per dare un po’ di respiro al popolo dei freelance. Sull’uscio del mercato del lavoro c’è intanto un plotone di millennials che per l’83% sarebbe disposto ad accettare un salario inferiore a condizione di lavorare autonomamente. Sta nascendo una società italiana e globale di freelancers che continuerà a crescere, in quella che rischia di diventare una vera e propria bolla. Ignorare una categoria di tali dimensioni non è più la soluzione, semplicemente perché presto rappresenterà la maggioranza degli occupati globali. Forse è arrivato il momento della redenzione per le partite IVA non imprenditoriali, che da “sfigati” e “nullatenenti” diventano ora la miglior espressione delle trasformazione sociali, economiche e tecnologiche della nostra epoca.

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