Siamo costretti a fare le missioni all'estero per mantenere il nostro esercito - THE VISION

A inizio gennaio quando le Camere erano già sciolte e l’Italia si preparava ad affrontare i bombardamenti di una campagna elettorale tragicomica, un certo clamore aveva destato l’approvazione di una missione militare italiana in Niger. Grazie ai voti favorevoli di Forza Italia e del Partito Democratico, un folto contingente italiano è stato spedito in Africa “contro terrorismo e traffico di esseri umani” come ha specificato l’ormai ex presidente del Consiglio Gentiloni. La verità, però, è che quella missione – come tutte le nostre missioni all’estero – serve soprattutto a finanziare lo stesso esercito.

Nel 2018 le spese per il comparto militare italiano crescono del 4% rispetto al 2017. Il totale sarà 25 miliardi di euro, di cui 1,5 per le missioni militari all’estero. Una cifra consistente: il budget militare italiano è infatti l’undicesimo al mondo e, in termini di percentuale del PIL, decisamente più di importante di alleati come Canada (1%), Germania e Spagna (entrambe all’1,2%). Ad analizzare i numeri è Milex, l’osservatorio italiano sulle spese militari. “Senza i fondi per le missioni all’estero, non starebbe in piedi il comparto militare italiano,” spiega infatti a The Vision Francesco Vignarca, curatore insieme a Enrico Piovesana dell’osservatorio, e coordinatore della Rete Disarmo, la più importante organizzazione per il disarmo militare in Italia.

I fondi per le missioni all’estero stanziati dal Mef costituiscono ormai un elemento essenziale per far fronte alla quasi totalità delle spese militari, sino a diventare necessarie  per garantire la manutenzione dei mezzi e l’addestramento del personale. Come fatto notare da Milex, ci si trova quindi davanti al paradosso per cui, invece di avere uno strumento militare dimensionato in base alle esigenze strategiche e operative, abbiamo uno strumento sovradimensionato che diventa economicamente sostenibile solo grazie alle missioni all’estero, che diventano così irrinunciabili. Un paradosso molto inquietante anche per la democrazia stessa, come sottolineava già Dwight Eisenhower parlando del pericolo di un “complesso militare industriale” capace di influenzare le scelte economiche e anche politiche di una democrazia.

Dalle ricerche dell’osservatorio, emerge un’altra ambiguità: i costi del comparto militare sarebbero sempre più a carico di due ministeri che nulla hanno a che fare con la Difesa, quello dell’Economia e dello Sviluppo Economico. Il fondo del ministero guidato nell’ultimo Governo da Giancarlo Padoan contribuisce a 1,2 miliardi di euro per le spese all’estero, mentre quello dello Sviluppo economico mette sul piatto 3,5 miliardi per l’acquisto di nuovi armamenti.

Questi sono numeri che potremmo definire nascosti, e che sorprendono anche per la loro entità: il caso del ministero dello Sviluppo economico è emblematico perché il suo budget per investimenti in sviluppo e competitività viene assorbito per 3/4 dal comparto difesa. Le voci di spesa per le missioni all’estero sono state previste nel bilancio che si chiuderà il 30 settembre 2018 – quando probabilmente saranno necessari degli aggiustamenti al rialzo per chiudere l’anno. Una pratica questa che potremmo definire abitudinaria, visto che ormai da anni i bilanci consuntivi, diffusi ovviamente in seguito, risultano in media superiori di circa 2 miliardi (circa il 10% in più rispetto ai preventivi).

Sembra chiaro però che l’aumento di investimenti in apparati militari e missioni all’estero si deve soprattutto all’obiettivo italiano di mantenere una posizione di vantaggio sul Mediterraneo, con la giustificazione di essere il principale Paese europeo di transito dei migranti. Una carta che sembra essere un jolly per far passare qualunque provvedimento senza ponderazioni particolarmente meticolose degli interessi in gioco. L’Italia nel 2018 sarà infatti impegnata in cinque nuove missioni, di cui tre particolarmente significative in Africa. La più discussa è la missione bilaterale in Niger, uno dei Paesi di transito della rotta dei migranti verso l’Italia. Nel Dossier Difesa di gennaio, si legge che l’obiettivo della missione è “la stabilizzazione dell’area e il rafforzamento delle capacità di controllo del territorio da parte delle autorità nigerine e dei Paesi del c.d. G5 Sahel”. Il G5 Sahel è un coordinamento regionale di cui fanno parte i Paesi dell’area: Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad. Lo scopo è principalmente combattere i gruppi terroristi presenti nell’area, fra cui Boko Haram e varie sigle affiliate con Al Qaeda. Una polveriera su cui i francesi, per primi, hanno messo le mani, sempre con il fine ultimo di gestire il flusso dei migranti e mantenere il predominio politico. Basti pensare che in Niger la società di Stato Areva possiede alcuni dei più importanti giacimenti dai quali estrae uranio – un corrispettivo della nostra Eni con il petrolio libico. I francesi non sono gli unici a essere nel Paese, però: Stati Uniti e Germania hanno una propria base militare. Tutte le superpotenze cercano un avamposto nel Sahel. A spese del Niger, sempre più militarizzato.

La competizione, dal punto di vista italiano, è finalizzata prima di tutto alla gestione delle guardie di frontiera di Agadez, città snodo per il traffico dei migranti verso la Libia. A rendere paradossale tutta l’operazione c’è il fatto che il Niger ha dichiarato di aver appreso del suo avvio da parte dei media e di non avere alcuna intenzione di lasciare che i soldati italiani mettano piede sul suolo nigerino. L’imbarazzo è tanto e anche per cercare di mettere una pezza alle relazioni con i partner nigerini, il ministro uscente Marco Minniti il 16 marzo è volato a Niamey, capitale del Paese, per un vertice con i suoi omologhi del cosiddetto 5+5: Italia, Francia, Spagna, Malta e Portogallo più Algeria, Libia, Mauritania, Niger e Marocco. “Viene da credere che ci sia lo zampino francese in questa versione del governo del Niger,” ipotizza Vignarca, parlando a The Vision. “Dal mio punto di vista rappresenta la superficialità con cui l’Italia programma sul piano strategico queste missioni.”

È evidente come a Niamey non esista un’unica agenda europea: ogni Paese vuole ritagliarsi un proprio ruolo e una propria sfera d’influenza. L’Italia pensa di giocare la partita schierando un contingente (ipotetico, a questo punto) tra i 256 e i 470 soldati, per un costo tra i 30 e i 49,5 milioni di euro. Si tratta di truppe che si trovavano in Afghanistan, dirottate qui per una nuova missione. “Non solo dal punto di vista di un ‘disarmista’,” aggiunge Vignarca, “mi domando che valore abbiano le motivazioni della missione in Niger, anche sul piano militare mi chiedo come sia giustificabile la scelta di 400 soldati per presidiare un territorio che dalla missione non si limita nemmeno al solo Niger ma tocca pure Mauritania, Benin e Mali.” Eppure, almeno da agosto dell’anno scorso, Marco Minniti continua a ricevere al Viminale rappresentanti dei Paesi di Sahel e Nord Africa per nuovi progetti di cooperazione militare.

Più consolidata la missione in Libia, composta sia da militari che da agenti dei servizi segreti. Anche qui la competizione con i francesi è aperta. In fondo, lo scontro diplomatico esiste già dai tempi di Nicholas Sarkozy e Silvio Berlusconi, quando ancora regnava il Rais poi deposto Muhammar Gheddafi. Le recenti rivelazioni di Mediapart hanno indicato l’ex dittatore libico come finanziatore occulto della campagna di Sarkozy alla corsa per l’Eliseo, anno domini 2007. In tutto 5 milioni di euro che gli stanno costando un’accusa per corruzione. Berlusconi invece ha sempre cercato di sponsorizzare il Rais in tavoli internazionali: celebre, nel 2010, la visita della pittoresca delegazione libica a Roma che bloccò per diversi giorni la città. Ma i due leader dovevano mostrare anche sul suolo europeo la loro salda amicizia.

Le attuali missioni in Libia hanno lo scopo di “Assistere il Governo di Accordo nazionale libico attraverso lo svolgimento di una serie di compiti (assistenza sanitaria, corsi di sminamento, formazione delle forze di sicurezza, assistenza nel controllo dell’immigrazione illegale, ripristino dell’efficienza degli assetti terrestri, navali e aerei, comprese le relative infrastrutture, attività di capacity building, ricognizioni sul territorio per individuare le attività di supporto necessarie, garanzia della cornice di sicurezza per il personale impiegato),” si legge nel Dossier di Camera e Senato. In questo supporto è compresa la formazione della Guardia costiera libica, accusata in diversi rapporti delle Nazioni Unite di violazioni dei diritti umani (ultimo il rapporto redatto da Unsmil nel febbraio 2018), nonché protagonista dell’episodio a largo delle acque libiche che poi si è concluso con il sequestro della motonave Open Arms ordinato dalla procura di Catania. In mare c’è poi la missione Mare Sicuro, dispositivo a difesa delle piattaforme petrolifere italiane. Le unità disposte in Libia saranno 400, cento in più dell’ultima missione, denominata Ippocrate, e il costo fino a settembre sarà di 35 milioni di euro.

Sempre al presumibile scopo di controllare migranti e Mediterraneo, l’Italia da gennaio partecipa anche a una nuova missione della Nato, con 60 militari e un costo annuale di circa 5 milioni di euro. Tra le novità più rilevanti del 2018, il Dossier del Parlamento indica anche il contingente a supporto della missione delle Nazioni Unite Minurso, nata allo scopo di accompagnare il processo di pace nel Sahara Occidentale, una nuova missione europea di addestramento per l’esercito del Centrafrica e un nuovo dispositivo Nato per la sorveglianza dello spazio aereo europeo.

Come si diceva inizialmente, l’approvazione delle missioni militari di quest’anno ha una paradossale e grottesca caratteristica. È avvenuta a Camere sciolte. Questo via libera in fretta e furia ha fatto sì che il voto di approvazione non seguisse quanto previsto dalla legge 145 del 2016.

Tale norma  avrebbe dovuto restituire al Parlamento un ruolo centrale nell’invio di contingenti militari all’estero, gestito negli ultimi 15 anni attraverso decreti legge con cui il governo finanziava in una volta sola tutte le missioni, convertiti in legge solo successivamente dalle Camere. Con questa nuova procedura infatti, i parlamentari non saranno più costretti ad approvare in toto l’intero decreto missioni, che formalizza gli impegni militari italiani. “Potranno invece discutere,” spiega Vignarca, “punto per punto ogni singola missione, rivedere il budget, gli armamenti previsti e le regole di ingaggio.” Il nuovo sistema garantisce, dal punto di vista di chi vuole cambiare il sistema militare italiano, un maggiore controllo, anche strategico sul modo in cui si spendono i soldi. Cosa che appunto non è successa.

Forse lo si potrà esercitare dall’anno prossimo, se ci sarà una legislatura.

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