Non serve vivere in uno squat di Berlino per fare l'architetto - The Vision

Cosa spinge una generazione di studenti di architettura a intraprendere una carriera che non esiste? Riviste patinate, eroi da penna e taccuino e molte altre dolci illusioni che li trasformano in migranti col Mac, in personaggi che si ritengono eccentrici e che girano per le città guardando tutto ciò a cui gli altri, secondo loro, non fanno attenzione, armati di matite ben appuntite e pagine pronte a perdere il proprio candore. Questa è l’idea, romantica eppure attuale, di cosa sia viaggiare per un architetto: un passaggio fondamentale dall’età dell’innocenza alla presunta maturità intellettuale, il rito di iniziazione di chi ha visto e ha capito e appartiene ora a una cerchia ristretta, definitivamente in salvo. Purtroppo, o per fortuna, questa dolcissima favola però non è mai stata tanto distante dalla realtà.

Se fosse possibile tracciare la posizione di ogni MacBook in cui è stata installata la suite Adobe avremmo una rappresentazione eloquente di questa imponente migrazione: una nuvola impazzita di punti che si muovono in preda a turbolenti vortici e continue accelerazioni. Niente di simile agli eroi del passato i cui taccuini affollano ancora oggi gli scaffali delle librerie di settore, rilegati in costosissime edizioni facsimile acquistate soltanto grazie ai soldi dei padri e delle madri. Così, l’architetto contemporaneo – termine per certi versi già di per sé anacronistico – o meglio, il neolaureato in architettura, diventa un viaggiatore in cerca di tutto e di niente, che vaga con la speranza di trovare le sicurezze che ormai il mondo reale (quello dove si paga l’affitto, per intenderci) non può più dargli, pronto a scambiare periodi di “lavoro” non pagato nemmeno in cambio di visibilità, ma solo di qualche fragile convinzione. Il precedente più illustre è probabilmente la scuola di Taliesin, Arizona, dove giovani di tutto il mondo erano disposti anche a lavare i piatti pur di poter lavorare per gli ideali del maestro americano Frank Lloyd Wright. O per fare un esempio più attuale Arcosanti, fondata nel 1970 dal suo discepolo italiano Paolo Soleri.

Negli ultimi quarant’anni i luoghi sacri dei pellegrinaggi di architettura erano ben definiti e scanditi per decadi: c’è stato il magnetismo berlinese durante la ricostruzione degli anni ‘80, seguito dai ruggenti anni ‘90 dell’architettura olandese e dalla freschezza degli studi danesi di inizio millennio, per poi passare all’eleganza e alla purezza delle forme degli architetti spagnoli e portoghesi degli anni ‘10, giusto per citarne alcuni. E prima comunque c’era il Grand Tour. Ultimamente i riferimenti sono aumentati esponenzialmente e l’egemonia culturale che avevano una volta alcune mete si è frantumata, spargendosi su tutto il globo. È sufficiente dare un’occhiata a un qualsiasi sito di architettura per capire quanto le cose non accadano più in alcuni (pochi) luoghi privilegiati ma ovunque, e nello stesso momento – dall’Africa profonda alla periferia di Piacenza.

È proprio la narrazione operata dai social a rendere chiaramente visibile questo fenomeno. Sintetica, diretta e incisiva l’immagine su schermo colpisce immediatamente, senza bisogno di discorsi articolati. Ne è un esempio emblematico il nome di uno dei migliori blog sul tema: Afasia, una selezione di progetti, idee, luoghi, e opere d’arte da tutto il mondo, accompagnati al massimo da quattro o cinque righe – per chi proprio non riesce a fare a meno di leggere anche le etichette dello shampoo. Un altro esempio al limite del ridicolo è quello di Cyril Lancelin, che pubblicando immagini fittizie di architetture inesistenti sul suo profilo Instagram ha raggiunto la notorietà (per essere un architetto), con tanto di fiumi di commenti che chiedono la localizzazione precisa delle opere per andarle a visitare. Per quanto possa far sorridere l’ingenuità di chi è stato ingannato, è significativo che un fenomeno analogo alle fake news abbia invaso facilmente un settore in cui quotidianamente si manipolano immagini per presentare progetti e convincere clienti.

In questo panorama impazzito, in cui non si capisce più quali siano i trend estetici dominanti, il motore principale delle migrazioni è la richiesta di forza lavoro. Insomma, niente di simile alla brama di conoscenza degli eroi romantici dei secoli scorsi. Chi si muove di luogo in luogo o è nella privilegiata condizione in cui altri pagano al posto suo oppure è costretto a cercare fortuna e soprattutto salario altrove. Non c’è progetto a basso budget che non tenti di promuovere un workshop internazionale per tagliare i costi, situazione paradossale in cui si paga per fare ciò per cui altri sarebbero pagati per fare. Banalmente: il momento in cui tutte le velleità vengono smascherate è proprio quello in cui si devono fare i conti (non solo con la realtà), ma proprio per pagare le bollette.

Una delle reazioni più interessanti a questa instabile, e quindi terribile, condizione dell’architetto è quella dei sempre più diffusi collettivi, affollati gruppi di (più o meno) giovani architetti che si occupano per passione (aka sopravvivenza) dei più vari temi di progetto: “dal cucchiaio alla città”, come si dice, dall’intervento per la ricostruzione della piazza di Vignate alla ristrutturazione a basso costo con manodopera non troppo specializzata dei monolocali comprati alle aste giudiziarie da altri creativi. Ma ci sono anche realtà più significative, ad esempio i londinesi Assemble che con il motto “Make, don’t make do” hanno vinto il prestigioso Turner Prize, e i milanesi Fosbury, invitati di recente alla Chicago Architecture Biennal.

Assemble ha avuto la capacità di inventarsi un modo di fare architettura (e con “fare” si intende fare fisicamente, che di questi tempi è sempre meno scontato) totalmente diverso rispetto agli studi tradizionali, ovvero: usando le mani non per disegnare ma per costruire. Fosbury, invece, sembra essere l’unica realtà immune alla retorica dell’esperienza all’estero. Gran parte dei suoi membri, infatti, erano studenti che, non essendo partiti per l’Erasmus, si sono ritrovati a lavorare insieme ribaltando l’ideologia della fuga a tutti i costi. È così che troncano definitivamente in un’intervista le domande sul perché hanno deciso di rimanere in Italia: “To escape in Switzerland is terribly boring”. E in effetti non c’è molto altro da aggiungere.

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